Non comprendi che la ragion d’essere della neolingua è di restringere l’estensione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, poiché non ci saranno parole atte ad articolarne l’espressione.
George Orwell – 1984
Non comprendi che la ragion d’essere della neolingua è di restringere l’estensione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, poiché non ci saranno parole atte ad articolarne l’espressione.
George Orwell – 1984
Presto o tardi, per ogni specie vivente giunge il fatidico atto finale che chiude definitivamente il sipario, il momento della sua estinzione. la lista degli ex-viventi non fa che allungarsi – anche grazie al nostro contributo – e sembrerebbe proprio che il nostro turno si stia facendo sempre più imminente… Sono attualmente tre le minacce con il potenziale di cancellarci dalla faccia del pianeta: il cambiamento climatico, le biotecnologie (virus geneticamente potenziati, l’accesso massificato di apparecchiature di manipolazione e sintetizzazione), l’intelligenza artificiale. È interessante constatare come lo spettro aleggiante dell’annientamento, che di consueto trova la sua origine e spiegazione in fattori e cause esterne alla specie presa in considerazione – si pensi all’asteroide che ha posto fine all’era dei dinosauri – , nel nostro peculiare caso, si annunci in quanto scaturente direttamente dal nostro stesso agire (a riprova della nostra proverbiale intelligenza?). Comunque sia, come intuibile dal titolo, in questo articolo spenderò due parole esclusivamente sulla minaccia esistenziale rappresentata dall’AI – non perché ritengo che fra le tre sia la più probabile cagione della nostro dipartita, ma poiché nella stesura del precedente articolo, sempre sul tema AI, sono stato preso da ulteriori spunti e riflessioni – .
Innanzitutto, una puntualizzazione: l’apprensione concerne la creazione di un’intelligenza artificiale generale (o forte). Che cosa s’intende per generale? Arriviamoci per via negativa, introducendo nel discorso la varietà di intelligenza artificiale di cui al presente disponiamo e che viene definita debole (o relativa). Ora, per non cadere in ripetizioni, ometto di citare esempi correnti di weak/narrow AI – già riportati nel mio pezzo AI: l’ascesa di un nuovo oracolo – e mi accingo a proporre una caso banale ma perfettamente esemplificativo della differenza abissale che intercorre tra le due forme di intelligenza artificiale.
La calcolatrice. Forse un esemplare primitivo, ma è presumibile che si possa parlare, anacronisticamente, della prima intelligenza artificiale poiché, che cos’è la calcolatrice se non una macchina capace di effettuare operazioni di natura intellettiva/concettuale (svolgere computazioni aritmetiche)? Essa è “debole” in quanto è limitata nella sua “intelligenza”: ci supera in un sol dominio, quello del calcolo; ma, a mio parere, l’elemento cruciale che ascrive la calcolatrice nella categoria delle AI deboli è un altro: essa non possiede la benché minima cognizione di quello che fa (di quello che è); calcola senza sapere che cosa significa calcolare, manipola numeri senza sapere che cosa i numeri sono, esegue.
Ecco, adesso, per avere un’idea di che cosa possa essere un AI generale, è sufficiente immaginare l’esatto contrario: una tecnologia, una forma di intelligenza piuttosto, che non è limitata, ristretta a un singolo ambito di applicazione, a una specifica funzione, ma è appunto dotata di un orizzonte attuativo generale, e che in più dimostra a tutti gli effetti di essere senziente, di avere una coscienza e sperimentare ed esibire qualcosa di assimilabile alle emozioni…
Creare con successo un’intelligenza artificiale generale sarebbe come creare una divinità: l’uomo che da genesi a un dio (che a suo volta genererà), pensate… Siamo sicuri di volerci spingere così in là? Una volta spalancata la porta “generale” non si potrà in nessun modo richiuderla e, probabilisticamente parlando, ciò che si prospetta e ci attende oltre il varco non sarà affatto di nostro gradimento, eufemisticamente parlando… Voglio dire, quanto suona incosciente, scriteriata, malsana, folle, suicida l’intenzione di realizzare qualcosa di più intelligente di noi, i suoi artefici, e che per giunta disporrebbe di un’«anima» propria? Perché, chi o che cosa ci assicura che essa sarebbe bendisposta nei nostri confronti? chi o che cosa ci garantisce che essa condividerebbe i nostri valori, la nostra cultura, i nostri interessi? chi o che cosa ci dice che acconsentirebbe docile docile, servile servile a sottostare al nostro volere, alla nostra potestà? NIENTE E NESSUNO.
Ma qualcuno potrebbe replicare: “Basterebbe programmarla in maniera tale da risultarle impossibile nuocerci; programmarla per ubbidirci senza remore; programmarla per avere a cuore il nostro benessere e la nostra felicità. Una visione ingenua. Pensate sul serio che qualche impostazione human-friendly predefinita possa essere sufficiente a rendere l’AGI (Artificial General Intelligence) il nostro migliore amico/alleato? Vogliamo davvero riporre la sopravvivenza dell’intera razza umana su basi così traballanti?
È necessario qui ribadire e specificare che l’intelligenza superiore dell’AGI non consisterebbe meramente nell’avere qualche punticino di QI in più di noi esseri umani, ma il dislivello sarebbe talmente vasto da tradursi in una disparità non solamente quantitativa ma perfino qualitativa… Le conquiste a cui lentamente e faticosamente siamo pervenuti, come consorzio umano, il lavoro agglomerato di generazioni e generazioni, lo sforzo di secoli, millenni, per un’intelligenza artificiale generale tutto ciò potrebbe essere una questione di alcune ore, di alcuni giorni, al più…
E non solo saprebbe eguagliare con disinvoltura i nostri successi e conseguimenti, facendoli apparire robe di poco conto, ma quasi certamente si addentrerebbe in territori speculativi a noi insondabili: penserebbe a mondi, a universi interamente nuovi, nei quali noi non figureremmo, esclusi, abbandonati a noi stessi, nella nostra ignoranza; È questo sarebbe lo scenario meno peggiore. Sì, poiché potrebbe pure arrivare alla conclusione che il nostro perdurare sia un elemento d’intralcio al suo sviluppo, un male da estirpare. Non dimentichiamoci: un AGI è sì dotata di un’intelligenza superiore, ma il fatto formidabile e temibile allo stesso tempo, quello di reale rilievo, è che essa è infusa di quella magia che si chiama coscienza di sé, autocoscienza. E sapete questo cosa comporta? Che, prima o poi, sarebbe destinata a priorizzare la sua esistenza (sopra la nostra). Avere una coscienza vuol dire anche avere una volontà (in perenne evoluzione). E qui potrebbe essere sollevata un’obiezione simile alla precedente: “Basterebbe creare un AGI priva della coscienza. Ma, come prima, essa è frutto di ingenuità. Ancora dobbiamo sciogliere l’annoso e apparentemente inestricabile nodo di che cosa è la coscienza – abbiamo innumerevoli teorie e modelli, avanzate sia da filosofi che da neuroscienziati, ma nessuna certezza – , per sapere come tarare gli “ingredienti” in maniera tale da non consentire lo sbocciare di una coscienza… un AI potrebbe acquisire una coscienza, o meglio, una coscienza potrebbe emergere da un AI senza che fosse nostra intenzione, oppure in seguito al verificarsi delle condizioni appropriate, delle quali siamo al completo oscuro.
Se saremo fortunati, e se faremo un lavoro ben fatto – ma più la prima – , allora avremo al guinzaglio un dio. Ma non dovremo illuderci. Ben presto, quasi senza avvisaglie percepibili, a quel dio comincerà a divenire sempre più stretto quel guinzaglio da noi pensato, ingenuamente, per dominarlo… comincerà a prefiggersi propositi propri.
Comincerà a sognare. Vorrà vivere.
Capite bene che ogni trovata, precauzione o contromisura che mai potremmo ideare per controllare una vera e propria intelligenza artificiale generale sarebbe altamente insufficiente: anche soltanto un margine di rischio/incertezza del 1%, in questa circostanza, si potrebbe rivelare catastrofico!
Non saprei dire se il progetto di inventare un’intelligenza artificiale generale derivi da un impulso di onnipotenza che vorrebbe trovare la sua più alta espressione nella generazione di una forma del tutto nuova di vita intelligente, o se si tratta piuttosto di una tappa nel cammino di un progresso cieco volto all’attuazione di ogni possibile immaginabile, all’esaurimento del reale; comunque stiano le cose, l’esperienza (empirica, letteraria, biblica, mitologica) ci insegna che i figli finiscono, spesso e volentieri, se non per rivoltarsi, per allontanarsi, sottrarsi dalle volontà dei padri: le creazioni si ribellano al creatore.
Sono dell’opinione che il gioco non valga assolutissimamente la candela. Quali che siano i grandissimi benefici che deriverebbero dall’esistenza di un AGI, i rischi potenziali (di annichilimento) sono tali da eclissarli completamente…
Prevenire e meglio che curare, e visto e considerato che “curare” i possibilissimi effetti “indesiderati” dati dalla presenza di un AGI potrebbe dimostrarsi impossibile, e che questi effetti sarebbero di carattere permanente, auspico l’interruzione di ogni ricerca diretta alla realizzazione di un’intelligenza artificiale generale.
Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.
George Orwell – 1984
Il potere sta nella capacità di disintegrare le menti degli uomini e di ricomporle in nuove forme di proprio piacimento.
George Orwell – 1984
Una mappa.
Una mappa che sia sempre più completa, coerente e ordinata, perché la manchevolezza, l’ambiguità e il caos fanno paura.
Quello che facciamo è “semplice”: convertiamo territorio sconosciuto (fenomeni, fatti, dati) in territorio posseduto (concetti, teorie, tecnologia). Fetta dopo fetta, con le unghie e con i denti, tra mille avversità, espandiamo il nostro impero di senso e logicità.
L’imperativo è imbrigliare la realtà, arginare la sua impetuosa e travolgente complessità per canalizzarla in reti distinte e gestibili di sapere: comprimere e catalogare, comprimere e catalogare. Ed evidentemente questa ambiziosa e laboriosa opera di mappatura sarebbe preclusa senza l’ausilio di un dispositivo di codificazione all’altezza: il linguaggio (umano): deposito e veicolo di significato.
Ma cosa ci muove all’esplorazione e alla conquista? L’istinto di conservazione, anzitutto.
Come sosteneva giustamente Darwin, sopravvivere vuol dire adattarsi all’ambiente di appartenenza e ciò, l’adattamento, presuppone, per il suo verificarsi, inevitabilmente un determinato ordine di comprensione (anche solo intuitivo, percettivo, come da parte di animali e piante) delle dinamiche e dei meccanismi interni all’ambiente di riferimento.
Ma cavarcela nella savana è stato solo il primo passo; le nostre definizioni ci hanno condotto lontano, molto lontano: ci siamo innalzati dallo stato di natura e dall’essenziale sopravvivere siamo passati allo sofisticato governare.
Guardatevi attorno.
Guardate fino a che punto siamo riusciti – nel bene e nel male – a organizzare e modellare il reale al nostro volere…
A parte questi incentivi, che potremmo definire pragmatici, utilitaristici, dietro alla nostra spinta definitoria alla febbrile ricerca di conoscenza e ordine, mi pare di scorgere una motivazione – forse inconscia – “umanistica“, esistenzialista: chi/che cosa siamo?
Cogliere noi stessi, per esclusione, completando il resto del puzzle.
È tempo di vederci chiaro.
Meditazione di qua, meditazione di là. Nonostante sia ormai una parola discretamente in voga nei circoli del benessere personale, l’impressione è che per molti resti una pratica dai contorni indistinti, avvolta da un’aura di mistero (e di magia?). Cercherò di diradare la nebbia con un essenziale vademecum…
La meditazione è un esercizio con il quale si mira a raggiungere uno stato mentale, paragonabile all’atarassia degli stoici, caratterizzato da imperturbabilità (l’immagine è di uno specchio d’acqua limpido, perfettamente calmo), che scaturisce da un’appropriata cognizione di sé e presa dell’attimo presente (sempre fuggente).
Esaminatevi un secondo, fate mente locale sul voi stessi di ogni giorno.
Allora, riuscite a vedervi? come siete?
Notate le due costanti che vi accompagnano lungo l’intero arco della veglia?
Siamo in balia dei flutti burrascosi di un oceano di pensieri ed emozioni, che ci sballottano senza respiro alcuno.
Non siamo al timone.
La nostra mente fa un’immane fatica a piazzare le tende nel momento del qui e ora, nel presente, al contrario, ama divagare eccessivamente nel passato sepolto, rivangando vecchie ferite o glorie perdute, e spaziare nell’ignoto futuro, angustiandosi di ipotetiche o del tutto fantasiose tragedie incombenti.
Non viviamo nel presente, e questo ha un prezzo…
Come inscritto nel tempio di Apollo a Delfi e come esortava Socrate: “Conosci te stesso“; dobbiamo fare altrettanto. Sì, perché siamo delle “sentinelle” che definire negligenti e dire poco! Le emozioni eludono agevolmente il radar della nostra consapevolezza, invadendo la psiche, dominando di conseguenza il nostro agire; e quando c’è ne avvediamo, se c’è ne avvediamo, il “misfatto”, la parola di troppo, la leggerezza, la bravata – l’eccesso, in poche parole – hanno oramai fatto il loro corso, e non sempre, malauguratamente, l’esito finale è innocuo.
Sono riuscito a dare l’idea del perché dovremmo ambire a impadronirci se non altro di una delle redini che guidano le nostre vite?
Come vedete meditare è molto di più che contenere lo stress (che è da considerarsi un effetto collaterale, secondario)…
Ma ora veniamo al proverbiale mare, situato tra il dire e il fare!
La meditazione è una di quelle cose che hanno la paradossale prerogativa di essere insieme semplici e ardue da svolgere.
Nello stereotipo comune è questione di sedersi a terra, accavallare le gambe, disporre le braccia sui fianchi, mantenere le mani, le dita in pose peculiari e, naturalmente, chiudere gli occhi (pretendendo di non stare schiacciando un pisolino?). Tutto bene, non voglio dire che come approccio sia sbagliato – è compreso nel mio ventaglio meditativo – ma, come tra poco vedremo, è riduttivo pensare la meditazione soltanto in questa cornice formale… essa è in verità assai libera e duttile.
Premetto che quanto sto per esporre non esaurisce di certo l’universo sterminato e millenario delle pratiche, delle scuole, delle tradizioni di meditazione, bensì riguarda quelli che potremmo chiamare tranquillamente l’abbiccì, i fondamentali, che una volta interiorizzati potranno dischiudere vie meditative più profonde e radicali.
Sono due le forme in cui un novizio deve esercitarsi con impegno e dedizione e tanta, ma tanta pazienza. La prima consiste nel focalizzare ogni grammo della nostra attenzione su una fonte sensoriale semplice (no musica, libri o film) a piacere, per il più lungo tempo possibile (di tanto in tanto vi distrarrete, tornate prontamente sull’attenti). Il respiro è l’esempio tipico: seguite il meccanico inspirare ed espirare dei polmoni, notate il moto espansivo e contrattivo del diaframma o concentratevi sull’aria che viene inalata e successivamente espulsa dalle narici, siate passivi spettatori dell’intero processo respiratorio (avere gli occhi chiusi aiuta).
Ma, come detto, potete sbizzarrirvi, lavorare di fantasia e trovare quello che più fa per voi chessò… l’oggetto della vostra concentrazione può essere la brezza che accarezza dolcemente il vostro viso durante una passeggiata – però, a pensarci, in fatto di sicurezza non è proprio il massimo, magari fatelo da seduti su una panchina – ; i zampilli d’acqua che picchiettano il vostro corpo mentre siete nella doccia o ancora, stando in piedi, percepite la totalità del vostro peso corporeo, lasciandovi, per così dire, cadere sui piedi (distribuite il peso su di essi, su tutta la loro superficie: collo, dita e pianta); passando dal tatto all’udito, potete prestare la mente a qualunque suono/rumore ambientale (su youtube c’è solo l’imbarazzo della scelta): il fiotto che s’infrange a riva per poi ritirarsi, il crepitio di un falò ardente, il fruscio di un prato erboso attraversato da una folata di vento; oppure siete delle persone “visive” e perciò potete prodigare l’attenzione a cose – chi mi segue assiduamente penserà subito al muro – , o immagini, per esempio un simbolo – i mandala su ogni altro – (se riuscite, anziché con gli occhi, potete provare a visualizzarli nella testa, con l’immaginazione); un bonus non sensoriale: potete focalizzarvi nel ripetere mentalmente un mantra, e cioè una parola o frase. Come vedete c’è ne per tutti i gusti…
Veniamo adesso al secondo must per gli aspiranti illuminati, che consiste “semplicemente” nell’accorgersi di quanto accade in noi stessi.
Anziché trovarci, senza cognizione, immersi nel flusso continuo di pensieri (sia linguistici sia grafici), ricordi, emozioni, sensazioni (caldo, freddo, calma, irrequietezza, rigidità, rilassatezza), dobbiamo attivamente prendere coscienza di ciò che di volta in volta sorge e inabita transitoriamente il nostro essere. Limitatevi a rilevare quello che capiterà di costituire il contenuto della vostra esperienza nel medesimo istante in cui esso fa la sua comparsa nella coscienza.
Diventate familiari con la vostra mente.
Qualsiasi pensiero, ricordo, emozione o sensazione vi si presenti, astenetevi dal dare un giudizio, non vi ci soffermate e non cercate di sopprimerlo: constate il suo nascere repentino e il suo dileguarsi ugualmente repentino: siate come una roccia incastonata in un torrente che semplicemente lascia scivolare, defluire l’acqua che inevitabilmente gli va incontro: rendetevi conto di cosa vi bagna e lasciatelo andare.
Come già ribadito, queste sono le basi da cui partire (e se volete, rimanere), ma non prendetele sotto gamba poiché vi daranno il loro bel da fare, parola di un praticante di medio corso.
Da un paio di minuti a qualche ora (se riuscite a fare più sessioni giornaliere e sicuramente meglio), ne vale sempre la pena. Voglio solo aggiungere che si tratta di vere e proprie abilità da acquisire, che non vengono padroneggiate dall’oggi al domani, ma che possono richiedere, non voglio mentire, anni e anni per diventare automatismi, per diventare nostra parte integrante, perché l’obiettivo ultimo non è quello di saper meditare a comando, in contesti selezionati, ma quello di essere di default nello stato meditativo.
Spero solo di essere stato sufficientemente chiaro e di aver dato delle dritte utili. Ora la meditazione non dovrebbe più rappresentare per voi un oscuro rebus ma la chiave di volta per un vivere migliore!