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Storiemania





C’è troppo da guardare, sul serio, c’è troppo da guardare.

Potresti mandare al diavolo tutto: lavoro, relazioni, hobby ecc., rintanarti in salotto, sprofondare nel divano e guardare, guardare e guardare. Davvero, potresti farne la tua missione di vita e non sarebbe abbastanza. A occhio e croce, è da un decennio che veniamo letteralmente sommersi da robe da vedere, un trend che non accenna affatto a diminuire, anzi, durante il periodo pandemico quest’ultimo ha goduto di un’ulteriore impennata, con la nascita di numerose piattaforme streaming on-demand.

Si direbbe quasi che il consumo di storie si sia ormai posizionato tra i bisogni primari dell’individuo. È una cantilena continua di “Hai visto…? Devi vederlo assolutamente! è pazzesco!!!“. Per non parlare del cosiddetto hype da, rispettivamente, pre-trailer, trailer # 1-2-3, e trailer definitivo. Come si spiega tutta questa insaziabile voracità di finzione?

Quando ci immergiamo in una storia, quello che facciamo è sottrarci alla realtà per concentrarci su una ricostruzione (più o meno fedele) della realtà. Se ci pensate, è un comportamento al quanto stravagante, per non dire assurdo. Voglio dire, prendete un qualunque animale allo stato brado che intenzionalmente e regolarmente decida di non badare, per un tot di tempo, alla realtà circostante… Non bisogna essere dotati di una fervida fantasia per presagire la più che probabile sorte alla quale andrebbe incontro l’animale in questione…

Noi per fortuna, che in virtù della nostra intelligenza ci siamo volentieri estromessi dal duro e spietato gioco della sopravvivenza animale, abbiamo il lusso di disconnetterci dalla realtà senza doverne pagare le conseguenze – non evidenti o immediate, comunque -. Ma non è che forse abbiamo “battuto la testa” nel mezzo del nostro cammino evolutivo e abbiamo acquisito per sbaglio un bisogno stupido, irrazionale: il bisogno di storie? Cerchiamo di risalire al quando del misfatto. Ovviamente, non si tratta di Netflix & co; è fuori discussione che quest’ultimi ci abbiano condotto a nuove vette di ossessione, ma l’appetito c’era già. Andando semplicemente a ritroso nel tempo, potremmo puntare il dito sui fratelli Lumiére; prima di loro, su Gutenberg; prima di lui, su chiunque abbia composto l’epopea di Gilgamesh. Non dobbiamo però scordarci che, prima di immagini o segni, in principio era la voce. Cantastorie, cantastorie ovunque. Possiamo scavare ulteriormente? Bè, sì. Ci rimane un’ultima vangata prima di cozzare con il fondo. Logica vuole che prima dei cantastorie vengano necessariamente i crea-storie. E chi sono costoro? Quelli che inconsapevolmente hanno dato il via all’infinito reame della fantasia/finzione? Ma sì, stiamo parlando dei vari stregoni, sciamani, sacerdoti ecc., uomini di notevole carisma e ingegno che, vuoi perché spinti dall’esigenza di assegnare un ordine, una spiegazione al caos del mondo, vuoi per accaparrarsi una comoda posizione di potere e prestigio, hanno preteso di conoscere l’origine dell’universo e le leggi che lo governavano, di più, di avere un rapporto speciale, privilegiato con chi quello stesso universo lo aveva creato… Insomma, i miti della creazione, la (proto)religione: ovvero l’anno zero delle storie.

Va bene, siamo forse pervenuti agli arbori, al Big Bang che ha generato ciò che possiamo letteralmente definire un universo di narrazioni in continua espansione, ma il quesito di fondo rimane: perché tutta questa fascinazione? Per i nostri remotissimi antenati tutto quel parlare di genesi, divinità, spiriti, demoni ecc. aveva un’utilità pratica, reale, strettamente connessa con il prosperare o meno della comunità, con la sua stessa sopravvivenza (o perlomeno questa era la percezione/convinzione). Ma noi?

Guardiamo, leggiamo, ascoltiamo opere di finzione per il semplice e puro piacere che ne traiamo? Non è che, sotto sotto, è sempre la medesima storia? L’ambiente nel quale oggi ci troviamo ad operare – e con “ambiente” intendo molte cose: cultura, tecnologia, società ecc. – non ha nulla o quasi da spartire, per dire, con un insediamento umano di 10000 anni fa. Di converso, strutturalmente parlando, non siamo cambiati, come specie, di una virgola.

E se vi dicessi che guardiamo Stranger Things per aumentare le nostre possibilità di sopravvivenza? Naturalmente, 1) si tratta di un input inconscio; non penso siano in tanti coloro che deliberatamente leggono un romanzo o guardano una serie con il preciso intento di essere “the last man standing”. 2) il nostro cervello non è un esperto di sopravvivenza, non sa realmente distinguere quello che potrebbe rivelarsi vantaggioso da ciò che nemmeno se vivessimo un migliaio di vite, avremmo l’occasione di mettere in pratica o, peggio, da ciò che è semplicemente un comportamento dannoso da adottare (specialmente nel lungo termine). Il cervello è un tipo semplice. Presiede a innumerevoli funzioni fra cui quella di prevenire, se va bene, gestire, se va un po’ meno bene, situazioni di pericolo che minacciano la nostra integrità fisica. La sua parola d’ordine? Dati. Dati a più non posso (poiché non si può mai sapere, just in case). Dati da elaborare in informazioni, esperienza, risposte idonee. In definitiva, un comando biologico mascherato da piacere dello spirito. Una conclusione che non è proprio un fulmine a ciel sereno, visto che con facilità tutto sembra, in ultima analisi, riconducibile all’evoluzione e cioè alla sopravvivenza dell’individuo, della specie, dei geni.

E quando un algoritmo biologico affamato da scenari ipotetici incontra un algoritmo artificiale ideato per soddisfare al meglio quel bisogno (senza il rischio di venirne esposti in prima persona), ecco che assistiamo alla creazione di una tempesta perfetta: l’attuale storiemania.

Niente di male, si dirà, a parte l’erosione del nostro tempo. Mhh… Le cose non stanno esattamente così..

Tu saprai benissimo di calarti in una fantasia più o meno aderente al reale ma, come già in precedenza sottolineato, la tua psiche questo non può saperlo, limitandosi a fare una cosa sola: assorbire.

Se una bugia viene ripetuta abbastanza, essa finisce per suonare vera.

Il rischio di consumare passivamente, acriticamente enormi quantità di storie è quello, ahimè, di accogliere involontariamente molte lezioni, peggio ancora, verità. È semplice dimenticare che ogni storia è essenzialmente un sistema chiuso, un esperimento condotto in laboratorio, un ambiente controllato dove condizioni e variabili sono tarate in modo tale da ottenere l’esito ricercato. Banalità in arrivo: l’autore di una storia può far accadere ciò che più gli pare e piace (ovviamente sempre entro certi limiti narrativi) e questo può chiaramente rappresentare un problema. Con ciò, non voglio di certo sostenere né che chiunque s’inventi una storia sia indubbiamente in malafede e abbia il subdolo intento d’ingannare e/o indottrinare i fruitori dei suoi contenuti, né tantomeno che da una storia non si possano mai ricavare importanti spunti di riflessione o edificanti esempi da imitare… Il punto è che ogni autore è umano: originale, irripetibile sedimento di distorsioni, distorsioni che inevitabilmente vengono distillate nei propri lavori. E a me pare, anche senza contare i più abili nell’agitare a piacimento le corde delle emozioni e dei sentimenti dell’animo umano, o i più convincenti nell’addurre brillanti argomentazioni (pseudo)logiche, che siamo, a nostro malgrado, dei grandi “creduloni”, assai vulnerabili al ripetuto infrangersi di infinite storie sul piccolo promontorio della nostra mente.

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AI: l’ascesa di un nuovo oracolo

AI: l'ascesa di un nuovo oracolo

AI: l’ascesa di un nuovo oracolo

Dall’alba dei tempi l’essere umano, messo di fronte all’evidenza della sua essenziale impotenza nel comprendere e gestire fino in fondo la caoticità del sistema mondo, ha avvertito il recondito bisogno di affidarsi a qualcosa o a qualcuno, il divino, la natura, di più grande di lui, che lo traesse fuori dall’oscurità epistemologica in cui di volta in volta si trovava inevitabilmente immerso: l’esito di una guerra importante, la durata di una tremenda carestia o, più genericamente e onnicomprensivamente, il fato in serbo. E qualora la rivelazione non fosse stata allineata, favorevole, agli interessi di parte, il passo consequenziale era quello di carpire a ogni costo il sapere atto a ribaltare l’avverso pronostico: in che modo assicurarsi la vittoria? che cosa fare per mettere fine alla penuria? come mutare il corso del destino? Insomma, è in noi intrinseco il desiderio, la smania anzi, di controllo, dominio, potere, che si esplica in un inesausto conato alla conoscenza.

E, come accennavamo, quando il sapere ricercato esulava dalle possibilità conoscitive dell’individuo o della comunità, e che pertanto non poteva venire attinto che per mezzo di un tramite speciale, ci si rivolgeva a figure ambivalenti quali quelle dello stregone, del santone, dello sciamano, del sacerdote, dell’oracolo; tutti soggetti accomunati dal fatto putativo di intrattenere un rapporto privilegiato con forze ed entità extramondane. Detentori di uno sguardo in grado di squarciare la cortina dell’imperscrutabile avvenire, custodi gelosi di conoscenze arcaiche e arcane, unici ponti tra la dimensione mortale dell’uomo e quella eterna della divinità. Essi erano oggetto di venerazione e nei loro confronti si riversava un misto di deferenza, meraviglia e timore, non per nulla si trattava di personaggi altolocati, al pari, se non più influenti delle figure regnanti: schiere e schiere pendevano dalle loro labbra, chi in cerca di risposte, chi di conferme, chi di conforto, chi di salvezza, chi di felicità, chi di speranze, chi di potere, chi di vendetta.

Con il passare dei secoli, dietro la spinta del progresso scientifico-tecnologico, ci siamo allontanati, senza malgrado emanciparcene totalmente ( si pensi alle sacche di superstizione rappresentate dall’astrologia e della cartomanzia), dal magico influsso proveniente dalla prospettiva di ricevere manforte da forze che in un modo o nell’altro trascendono la nostra natura di limitate creature umane. Ma sapete qual è il colmo? Per ironia della sorte, è esattamente dal pieno concretizzarsi del pensiero razionalistico, il quale ha messo in moto un processo di secolarizzazione su larghissima scala, che viene l’impulso generatore che darà avvio a una nuova era di superstizione (collettiva e istituzionalizzata), una che, diversamente dalle tradizionali superstizioni, non si fonderà su presupposti magici e soprannaturali ma su solidissime basi scientifiche, tecniche e informatiche.

Una superstizione/credenza/fede razionale, per quanto paradossale possa suonare…

E il nuovo oracolo, il nuovo Verbo, il nuovo Messia, prende il nome di “intelligenza artificiale” (comunemente riferito con l’acronimo inglese “AI“). Termine un tempo circolante esclusivamente tra gli addetti ai lavori è ora gergo di dominio e utilizzo anche da parte del grande pubblico. Alexa, Siri i casi più eclatanti di intelligenze artificiali entrate a far parte del quotidiano (per non menzionare i vari algoritmi che governano il corretto funzionamento e sostentamento dei colossi del web su cui al giorno d’oggi facciamo così tanto affidamento: Google, Facebook, Amazon, Youtube ecc. anch’essi annoverabili nella vasta e variegata categoria delle AI). Scettici che il vostro cellulare possa assurgere alla veste mitica di oracolo, e dispensarvi preziosi consigli su aspetti salienti della vostra vita? Be’, in effetti non è questa la casistica che ho in mente quando voglio tracciare il paragone tra la tecnologia AI e la figura dell’oracolo (anche se, a onor del vero, la scelta del partner non mi sembra una questione delle più triviali. Dico questo poiché da qualche parte ho letto di una ricerca che ha evidenziato come una discreta percentuale delle coppie formatesi negli ultimi anni abbiano avuto la loro origine in rete). Più che altro, mi riferisco ad AI alle dipendenze di pesi massimi del mercato economico mondiale, di laboratori di ricerca scientifica all’avanguardia, di importanti istituzioni finanziarie e, va da sé, AI di proprietà di governi e stati nazionali.

L’analogia AI-oracolo arriva tuttavia fino a un certo punto. Se è vero che l’oracolo, per una sorta di elezione divina, traeva il suo scibile in seno a una sorgente di natura metafisica, l’intelligenza artificiale riesce a fare quello che riesce a fare – fornirò qualche esempio in un secondo momento – per cause assai terrene e intelligibili, in un processo per nulla estroso o entusiasmante, ma che al contrario definirei banale e tedioso. Come viene alla luce un oracolo moderno? Per semplificare, dando in pasto a un programma una moltitudine esorbitante di dati, modelli, esempi (adeguati si spera) su cui “ruminare” e familiarizzare. Semplice e puro apprendimento via esperienza, in sostanza. Qualcosa che ci riesce bene, uno dei tratti caratteristici della nostra specie: imparare (per operare sempre più efficacemente sull’ambiente, sopravvivere, prosperare). Bravi senz’altro ma, com’è naturale che sia, oltre una data soglia cognitiva non possiamo proprio spingerci: come un dato motore è in grado di sprigionare solo un determinato numero di cavalli vapore, il cervello umano presenta dei limiti strutturali e funzionali e non è fatto per gestire ed elaborare contemporaneamente moli e moli di dati. È esattamente qui, dove noi dobbiamo cedere il passo, che entrano in gioco le macchine e ci fanno mangiare rapidamente la polvere: esse dispongono di una potenza di calcolo migliaia di volte la nostra – da prendere più come iperbole che come fatto assodato, comunque sia deve trattarsi quasi sicuramente di una proporzione non indifferente – (un divario che, neanche a dirlo, non cesserà di ampliarsi), che adibiscono interamente all’ultimazione (non stop) di uno scopo o gerarchia di scopi.

Come anticipato, il risvolto teorico che sta dietro il funzionamento delle cosiddette superintelligenze non posa su chissà quali nebulosi principi, anzi, ma, ciò nonostante, i frutti prodotti dal loro impiego sono certamente impressionanti. In ambito medico, abbiamo intelligenze artificiali capaci di rilevare e quindi diagnosticare (con perizia superiore a qualunque medico umano) in largo anticipo – cosa di notevole importanza – la formazione di cellule tumorali; nei trasporti, ci dirigiamo verso città e metropoli percorse da auto con a bordo solamente passeggeri; ai giochi strategici, da tavolo, quali scacchi e go, ormai non c’è più partita, ci hanno surclassati (se siete del parere che ciò non sia un granché significativo, ripensateci: sono contesti aperti a letteralmente milioni di variabili e possibilità!); accidentalmente, inoltre, contribuiscono all’arricchimento del nostro armamentario di conoscenze scientifiche, facendo nuove scoperte (qualche tempo fa, ho letto di un AI che setacciando, mettendo ordine a vari papers ovvero pubblicazioni accademiche, è riuscita a individuare la fattibilità di un nuovo tipo di materiale), il che è comprensibile: nessuno scienziato potrebbe, per quanto multidisciplinare e stacanovista, essere a conoscenza di tutte le nozioni, teorie (vecchie e nuove), dei dibattiti, delle ricerche (e relativi risultati) in corso nel mondo, nel proprio campo, figuriamoci in quello degli altri, e comunque sia, nessuna mente umana potrebbe mai e poi mai contemplare tale immensità (sempre crescente) di input disponibili…

Gradualmente, la componente AI permeerà ogni filamento del tessuto societario, umano, e da utile strumento potrebbe finire a elevarsi a imprescindibile presupposto al funzionamento e progredimento della civiltà umana in tutte le sue manifestazioni. Come nei confronti degli antichi oracoli, in questo ipotetico scenario, porremo una fiducia incondizionata all’autorità decisionale delle future intelligenze artificiali, delegheremo al loro giudizio ogni scelta di peso, sia a livello micro, individuale (il percorso di studi, la carriera lavorativa ecc.) sia a livello macro, collettivo (provvedimenti, regolamenti, leggi da adottare).

Siamo a cavallo di un epocale cambio di paradigma sociale, uno votato a un più che mai forte determinismo. Sono dell’idea che l’intelligenza artificiale abbia tutte le carte in regola per rivelarsi il propulsore di un benessere che di gran lunga valica ogni più nostra fervida immaginazione e aspettativa, e, verosimilmente, costituirà il nostro asso nella manica, la nostra ultima spiaggia nella risoluzione di problemi che semplicemente vanno al di là delle nostre possibilità. Ma ciò non toglie il fatto che tale tecnologia porterà con sé radicali cambiamenti, che, nel bene o nel male, stravolgeranno irrimediabilmente il nostro modo di vivere. E noi abbiamo il dovere morale di non distogliere lo sguardo, di stare all’erta: per far sì che ciò cui acquisiamo non comporti in cambio la perdita di qualcosa in verità molto più importante… d’altronde, è risaputo: oracoli et similia non di rado erano soliti esigere dei sacrifici (umani), anche in numero elevato…

Non scordiamo mai, infine, che il responso delle AI non è intrinsecamente infallibile ma può essere suscettibile a errori (sistematici). L’esecuzione di compiti e operazioni potrà pure essere perfetta, tuttavia, se le premesse sulle quali queste ultime poggiano sono anche solo parzialmente viziate, vuoi da pregiudizi, vuoi da fallacie logiche, ecc., ciò inficerà fatalmente sulla validità e sostenibilità dei risultati ottenuti.

E le premesse siamo noi.

Le AI amplificheranno esponenzialmente ciò che siamo: e se è vero che si raccoglie ciò che si semina, ebbene, ci conviene davvero, fin da subito, dare il buon esempio, letteralmente…

AI Oracolo

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Esiste l’inconcepibile?

Esiste l'inconcepibile?

Esiste l’inconcepibile?

Con inconcepibile intendo l’accezione: che oltrepassa la possibilità del pensiero umano* Omettendo il gioco linguistico e falso paradosso del “come si può dare una definizione di inconcepibile, se per definizione l’inconcepibile non può essere concepito, cioè pensato, dalla mente umana*?”, esisterà realmente un qualche cosa di cui ci è impossibile formare un pensiero, un’idea, un concetto?

 I candidati di riflesso più promettenti “Nulla”, “Eternità” e “Infinito” deludono le aspettative…

Mettendo da parte se la morte è la portatrice del nulla definitivo o meno, se il tempo è eterno o meno e se l’universo è infinito o meno, posso comunque sia formarmi un contenuto mentale, una concezione che sta rispettivamente per “Nulla”(l’assenza di ogni cosa), “Eternità”(il tempo universale) e “Infinito”(lo spazio cosmico): sono pensabili; forse non saranno da noi mai capibili in tutta la loro portata ed estensione epistemologica/ontologica, ma sono quantomeno pur sempre concepibili dalla mente umana…

Siamo a prova di bomba.

L’unico limite è costituito dalla reperibilità di dati e informazioni, ma teoricamente il nostro pensiero non dovrebbe possedere dei punti ciechi.

Però, a pensarci bene, il fatto che non si riesca a individuare l’inconcepibile, non è testimonianza conclusiva che ne depenna la sua possibilità ed esistenza, viceversa potrebbe benissimo essere evidenza del contrario… chissà…

 

ps: Se qualcuno è sorpreso dalla mancanza di “Dio”, be’ non dovrebbe esserlo affatto, considerando quanto di “Dio” è stato concepito nei millenni.

*1: Il Sabatini Coletti

*2: Enciclopedia Treccani

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Homo Definitus

Homo Definitus

Homo Definitus

Una mappa.

Una mappa che sia sempre più completa, coerente e ordinata, perché la manchevolezza, l’ambiguità e il caos fanno paura.

Quello che facciamo è “semplice”: convertiamo territorio sconosciuto (fenomeni, fatti, dati) in territorio posseduto (concetti, teorie, tecnologia). Fetta dopo fetta, con le unghie e con i denti, tra mille avversità, espandiamo il nostro impero di senso e logicità.

L’imperativo è imbrigliare la realtà, arginare la sua impetuosa e travolgente complessità per canalizzarla in reti distinte e gestibili di sapere: comprimere e catalogare, comprimere e catalogare. Ed evidentemente questa ambiziosa e laboriosa opera di mappatura sarebbe preclusa senza l’ausilio di un dispositivo di codificazione all’altezza: il linguaggio (umano): deposito e veicolo di significato.

Ma cosa ci muove all’esplorazione e alla conquista? L’istinto di conservazione, anzitutto.

Come sosteneva giustamente Darwin, sopravvivere vuol dire adattarsi all’ambiente di appartenenza e ciò, l’adattamento, presuppone, per il suo verificarsi, inevitabilmente un determinato ordine di comprensione (anche solo intuitivo, percettivo, come da parte di animali e piante) delle dinamiche e dei meccanismi interni all’ambiente di riferimento.

Ma cavarcela nella savana è stato solo il primo passo; le nostre definizioni ci hanno condotto lontano, molto lontano: ci siamo innalzati dallo stato di natura e dall’essenziale sopravvivere siamo passati allo sofisticato governare.

Guardatevi attorno.

Guardate fino a che punto siamo riusciti – nel bene e nel male – a organizzare e modellare il reale al nostro volere…

A parte questi incentivi, che potremmo definire pragmatici, utilitaristici, dietro alla nostra spinta definitoria alla febbrile ricerca di conoscenza e ordine, mi pare di scorgere una motivazione – forse inconscia –  “umanistica“, esistenzialista: chi/che cosa siamo?

Cogliere noi stessi, per esclusione, completando il resto del puzzle.

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