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Mi sono fatto attendere, ma alla fine una risposta l’ho trovata. Tempo fa, ormai più di un anno fa, scrissi un articolo nel quale proclamavo, con fare faceto, la mia intenzione di venir meno a ciò che tranquillamente possiamo definire la vocazione biologica ultima, quella che interessa e accomuna tutte le forme di vita: assicurare il proseguimento della propria specie veicolandone il patrimonio genetico; moltiplicarsi, procreare insomma. In quell’istanza, però, la mia rimase un’asserzione sorretta da nient’altro che un’intuizione uterina. Ma, come qualvolta inspiegabilmente e ironicamente accade, quando uno si affanna a più non posso nel trovare la soluzione a un problema e non ci riesce, si distacca completamente dalla ricerca e nel mentre di tutt’altra la soluzione al precedente problema si fa come avanti di sua spontanea volontà, qualche giorno addietro, quando oramai nei miei pensieri della questione “no figli” non vi era assolutamente la benché minima traccia (o almeno è questo ciò che mi è consentito di affermare), ecco che un perché si è rivelato, folgorante, inatteso. Sensato? non saprei.

Noi esseri umani siamo davvero strani. Un costante e adeguato nutrimento, un riparo atto a proteggere dai predatori e a schermare dalle intemperie, la disponibilità di uno o più partner sessuali, l’appartenenza a un gruppo, tutto ciò è quanto basta per soddisfare l’esistenza delle altre specie, ma non quella dell’uomo (di norma). Noi necessitiamo, esigiamo il soddisfacimento, la realizzazione di un bisogno “superiore”: trovare, meglio ancora, conferire un qualche significato, un qualche valore, un qualche scopo al transitorio esserci che è la vita di ciascuno; pena l’essere avvinghiati perennemente da un sentimento di vuotezza e futilità: l’essere un guscio che cammina…

“Diventa te stesso!”, tuonava Nietzsche. Un’impresa nel più vero senso della parola. E a me pare che molti si sottraggano dalla gravosa chiamata ricorrendo ad una precisa scappatoia, ovvero quella di incuneare saldamente la propria vita al ruolo sacro di genitore. Mi correggo, piuttosto che di una fuga, sarebbe più giusto dire che si tratta di scegliere la maniera più “facile”, di default, per soddisfare quel nostro bisogno metafisico di senso e finalità, poiché totalmente in linea con ciò che la natura da noi richiede: figliare.

Diventare padre/madre ti cambia radicalmente la vita, si dice, e a buona ragione.

È inevitabile. Il nascituro è destinato, con la sua venuta, a detronizzare l’Io del genitore dal suo centro focale, assestando un nuovo gioco di equilibri chiaramente a sfavore, a discapito della soggettività del secondo. In altre parole: essere genitori vuol dire vivere per i figli; mettere la loro esistenza in capo alla propria. E in ciò nulla di male, ci mancherebbe… ogni manifestazione di amore è certamente la bene accetta, vitale, in un mondo, quello umano, che altrimenti sarebbe un luogo incredibilmente arido e squallido.

Avete ora inteso il perché dietro alla mia importante decisione di non volere dei figli?

Desidero che il motivo conduttore della mia vita (attualmente dai contorni sfumati) sia localizzato internamente, in me, a partire da me.

Puro esempio di egoismo? Non credo. Ma se essere egoisti significa voler vivere per stessi anziché per gli altri (il che non equivale a dire di preoccuparsi e occuparsi sempre ed esclusivamente di sé), allora sono felice di esserlo!

 

 

Il perché non voglio figli

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Genoma, chiedo venia…

genoma ti chiedo venia...

Genoma, chiedo venia…

Genoma o patrimonio/corredo genetico (o, in estrema sintesi, DNA): complesso dei geni di un individuo.

Riuscite per caso a imbroccare perché mai dovrei porgere delle scuse ai miei beneamati cromosomi?

Il fatto è che un tantino di pena me la fanno… voglio dire… sono giunti, dalla notte dei primi uomini, da territorio in territorio, di regione in regione, di Paese in Paese, di oceano in oceano, di emisfero in emisfero; di corpo in corpo, di generazione in generazione; per cataclismi, inondazioni, carestie, pandemie, fiere selvatiche; per guerre, massacri, saccheggi, rivoluzioni; fino a me.

A tutti gli effetti si può parlare di un esodo di portata biblica. Ma un viaggio, per quanto grandioso, è destinato a terminare, no?

Ripeto, a rifletterci sopra, uno, credo, non possa fare a meno di provare uno straccio di dispiacere, di rincrescimento… però è arrivato il capolinea. La lotta è finita. È tempo di morire.

Come si sarà da mo’ capito: non ho intenzione di trasmettere e perciò propagare, perlomeno non volontariamente, ulteriormente i geni in mia dotazione (ecco una delle singolarità che ci mette davvero in mostra, come specie: possiamo persino disertare l’istinto biologico…). Perché? Perché non mi va.

Riconosco l’eccessiva laconicità della risposta, che certamente non può contentare, ma, allo stato attuale delle cose, è ciò che di meglio posso fornire… magari un giorno di questi avrò io stesso delle idee più chiare a riguardo, da avanzare come supporto e spiegazione a ciò che per il momento non è altro che un responso di pancia.

Nel frattempo genoma, chiedo venia…

P.S. Siamo tutti geneticamente imparentati!

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