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Ogni verità attraversa tre fasi. Inizialmente, è derisa; in seguito, fortemente contestata; alla fine, accettata come auto-evidente.

Arthur Schopenhauer

Verità

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Il discorso del cattivo

Se c’è qualcosa di un film, di una serie o, più in generale, di una storia che, pure a distanza di innumerevoli anni, ha la qualità di rimanere impresso a fuoco nella memoria – all’infuori di una colonna sonora di brividi – è, per me, l’immancabile “discorso del cattivo“.

Le parole hanno un peso, le parole colpiscono, le parole sono come proiettili: una volta “scaricate” non possono in alcun modo essere richiamate. E a me è capitato di venire, inaspettatamente, trapassato, crivellato. Vedete, c’è stato un periodo della mia vita in cui ero dell’idea ,apparentemente innocente, che tutto quello fuoriuscito dalla bocca di colui identificato come il “cattivo” fosse, bè, cattivo. Il cattivo è dalla parte sbagliata e quindi tutto quanto dice e fa è, per principio, sbagliato; non deve essere considerato, le sue ragioni sono da rigettare inascoltate: tutta la fede (e la simpatia) va riposta esclusivamente ed ciecamente verso colui identificato come il “buono”; poiché egli è nel giusto e quindi tutto quanto egli dice e fa è, per principio, bè, giusto – pensavo.

Quant’è conveniente tranciare di netto l’umano genere in due fazioni ben distinte, monocromatiche? così da venire dispensati dallo sforzo cognitivo (e non solo) richiesto dal fermarsi a porsi due domande, darsi il tempo necessario ad analizzare e ponderare razionalmente il dire e il fare altrui…

A dirla tutta, non ricordo proprio il titolo/ i titolo che ha/hanno avuto il prezioso merito di aver fatto scoppiare la bolla dogmatica “buoni vs cattivi” nella quale ero inconsapevolmente inglobato, ma ricordo con massima chiarezza la sensazione di profondo sbigottimento quando per la prima volta in assoluto mi trovai d’accordo con un commento proferito da un appartenente al “lato oscuro”. “Ho sentito bene? No, da qualche parte in quello che ha detto ci deve essere per forza un fallo, una spudorata menzogna. Non può avere ragione! Dopotutto, è il cattivo (e io non sono cattivo, vero?)“.

Forse questa ricostruzione potrebbe far sorridere il lettore, inducendolo a credere che sia tutto un’espediente narrativo, un’iperbole mal celata ed eseguita, ma si troverebbe in errore, in quanto fu per me una questione alquanto seria: non solo era in gioco la mia Weltanschauung – per quanto ad un ragazzino delle medie si possa arrogare una cosa simile… – ma altresì la mia identità e levatura morale…

Ero in preda di una feroce dissonanza cognitiva. Da un lato, non mi ritenevo affatto una persona orribile; eppure mi ritrovavo nelle parole di un cattivo. Da un lato, “sapevo” che un cattivo è ontologicamente nel torto; eppure non potevo fingere di non riconoscere/subire la forza persuasiva del ragionamento di quest’ultimo.

Non risolsi questa contraddizione interna nel giro di una mezzoretta, ma me la portai dentro e dietro per un bel po’, fu un lento e interessante processo di sintesi. Chi avrebbe mai immaginato che starmene incollato alla tele avrebbe contributo a suo modo alla mia maturazione intellettuale, umana? Mia madre no di sicuro!

p.s: il mio cattivo preferito è l’ex-buono divenuto cattivo che sul punto di schiattare ritorna buono.

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Naturale = Buono

Naturale = Buono

Naturale = Buono

Un’equivalenza che è un equivoco, un malinteso diffuso e radicato che tende a screditare l’operato di alcuni campi della scienza e intralciarne il vitale progresso. È come se il pensiero comune adottasse nei confronti della natura un culto del divino rimasuglio dei tempi antichi: una madre buona e amorevole.

È naturale, quindi è buono; è buono, deve essere naturale.

Un dogma bello e buono.

Naturale è semplicemente qualcosa di non creato/indotto artificialmente. Non vi sono, né sono necessarie e opportune connotazioni aggiuntive; men che meno una considerazione imbevuta fino all’orlo di aprioristica validità e bontà etica… 

La natura è amorale. No, anche questo è cadere nell’abbaglio di personificare la natura…

Dobbiamo ricordarci che la natura non è un’entità, ma un’astrazione, una categoria che sta per l’insieme delle leggi, delle forze e dei processi che stanno alla base dell’universo, e dunque di ogni essere vivente e cosa inanimata, e che lo plasmano incessabilmente dalla notte dei tempi.

La natura è un lavoro in corso che semina frutti di qualunque varietà: dolci, aspri e amari; non è una granitica Bibbia che dispensa amore e giustizia. 

Ne deriva che, andare contro natura – quant’è demonizzata questa frase? -, deviare dal naturale, manipolare, modificare: non costituiscono di per sé, intrinsecamente, un male!

Ciò può essere complicato? delicato? pericoloso? Sì, sì e ancora sì. Solo un folle potrebbe negarlo. Dobbiamo essere estremamente cauti e coscienziosi, su questo non ci piove, ma ne vale la pena. Dico di più: per quanto è in nostro potere, per quello che concerne il miglioramento delle condizioni di vita umane, abbiamo il dovere morale di supplire alle mancanze e magagne della natura.

Attenzione però, qui non si tratta di sminuire la natura e mitizzare l’attività dell’uomo – la qual cosa sarebbe unicamente ridicola – , ma di rigettare con decisione una concezione manichea e dualista del reale, che vorrebbe contrapporre e ridurre ottusamente e dannosamente la physis, benigna, da un lato, e la téchne, maligna, dall’altro…

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Il male deve perdere?

Il male deve perdere?

Il male deve perdere?

È un bene che sia inderogabilmente il buono, il bene a emergere vittorioso e giubilante, dall’eterno scontro con le forze del male? 

È beninteso che il discorso è indirizzato esclusivamente alla dimensione fittizia della quarta parete, siccome nella nostra “parete” la stessa legge non è altrettanto inderogabile ,né comunque sarebbe in discussione la sua desiderabilità: chi sarebbe mai contrario a un mondo, in cui il giusto, ovunque esso dimori,(disgraziatamente, la distinzione fra bene e male, giusto e sbagliato, non sempre così netta) facesse come matematicamente il suo corso? Ciò vuole forse sottintendere che trovo controverso che il valoroso e intrepido eroe debba, a ogni epilogo, trucidare con successo il malvagio drago sputa fuoco?

l'eroe trucida il drago

Affermativo.

Una riserva che credo di incubare da quando ero piccino, sebbene all’epoca germinò più in risposta alla monotonia di sapere fin dal principio l’esito di ogni confronto tra bene e male, che a un sincero interessamento etico alla questione…

Il cattivo è di gran lunga superiore in ogni rispetto? ha messo a punto un meticoloso e geniale piano? è fervente e animato quanto la benevola controparte? Chissene! La sceneggiatura tipo: il buono viene messo alle corde, è in ginocchio, ma piuttosto che finirlo sul posto, senza fare tante cerimonie, infliggendogli  il colpo di grazia, cosa fa il cattivo? comincia a perdersi in chiacchiere, cimentandosi magari in un monologo filosofico sullo degenerato stato del mondo o su uno concernente la deviata natura umana… E conosciamo fin troppo bene il successivo dipanarsi degli eventi: l’improbabile rimonta del moribondo eroe, sulla scia di salienti flashback o dietro l’impulso di un rinnovato senso di dovere, di giustizia, di amicizia, di amore e chi più ne ha più ne metta… Insomma, il miracoloso guizzo di vitalità che consacra il trionfo del prode paladino.

Ecco, a un certo punto devo averne avute le scatole piene, di assistere ogni santa volta al medesimo copione di fondo; ma il rospo, in un modo o nell’altro, anche se amaro, venne ingoiato. Per quanto il finale di qualsivoglia storia sia ripetitivo e pronosticabile, troncare con film, telefilm, anime e manga, come a suo volta pronosticabile, non si è dimostrato possibile…

Va tutto bene – mi direte-, ma dove sta il problema? è per caso nocivo, sorbirsi fin dalla tenera età, un indottrinamento del lieto fine “e vissero tutti per sempre felice e contenti”? Potrebbe.

Un conto è enfatizzare l’importanza di nutrire valori e virtù morali, con l’intento di plasmare un mondo migliore, un altro è portare all’eccesso un buon proposito, deificandolo a dogma divino. Un trapianto nella coscienza collettiva di un ottimismo incondizionato nel futuro, che induce ad abbassare la guardia, a sottovalutare le difficoltà e a sopravvalutare le proprie capacità e risorse, o peggio ancora, a pensare che tutto fili liscio come l’olio, mentre sarebbe il momento opportuno di guardarsi realmente attorno e agire per sventare un domani catastrofico, o ancora, nascondere lo sporco sotto il tappeto, non facendo assolutamente nulla e senza avere un preciso programma d’azione per l’avvenire, poiché sentitamente convinti di poter sistemare ogni possibile impiccio a tempo debito (suona terribilmente familiare?), che tutto andrà per il meglio…

Sto suggerendo di scrivere, e quindi inscenare, pure epiloghi infelici? Sì, perché no? Dura però immaginarselo, vero? a riprova del fatto che si tratta di un costume molto radicato.

Epiloghi infelici

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