Archivi tag: miseria

Prima donne e bambini

Prima donne e bambini

Prima donne e bambini

Dare la precedenza alle donne e ai bambini nelle situazioni di emergenza, pericolo, durante le evacuazioni e i salvataggi; una nota linea di condotta di origine marinara – anche se, facendo qualche ricerca su internet, sembra alquanto trascurata nei naufragi – . Un gesto nobile, se frutto dalla propria volontà, in caso contrario, nient’altro che un sacrificio imposto; una discriminazione di genere (che indirettamente richiama  a sé quella femminile). Una discriminazione che si è ben impressa nel nostro sostrato psichico, questo grazie a una retorica martellante del “uomo forte/duro e della donna sesso debole/gentil sesso” che si perpetua da Dio solo sa quanto, sotto le più svariate forme espressive e convenzioni sociali.

Tutto comincia già alla nascita con l’associazione del colore blu/azzurro ai maschietti e del colore rosa alle femminucce. Lungi dall’essere mera attribuzione di sesso, sarà “bandiera” dei tanti meccanismi sociali e culturali che portano a estremizzare le differenze biologiche che intercorrono fra l’ uomo e la donna, imponendo a entrambi  prerogative specifiche. Forza, orgoglio e razionalità, da una parte; delicatezza, passione e modestia, dall’altra: l’impostazione di una netta opposizione, manichea, tra due universi umani.

Detto ciò, all’origine di atteggiamenti del tipo “prima le donne e i bambini” è palese l’influsso di narrazioni che vedono nella donna un fiore tanto incantevole quanto cagionevole (che quindi necessità di premura e protezione, di salvezza) – per quanto concerne la priorità concessa ai bambini, più che a un prodotto culturale siamo, credo, di fronte a uno evolutivo – : il topos della damigella in pericolo/fanciulla da salvare: protagonista femminile impotente la cui felicità e il cui benessere futuri sono integralmente derivanti e subordinati dall’agire di un impavido ed eroico protagonista maschile. Un motivo di vecchia data, che dovrebbe risalire almeno alla Grecia antica (prendendo per buono quanto riportato da Wikipedia); emblematica è l’ambientazione medioevale con valorosi cavalieri che soccorrono innocenti principesse dalle grinfie di draghi malefici. Di vecchia data ma tuttora piuttosto adoperato, come si può facilmente constatare…

L’introiettamento di questo stereotipo, che nel nostro tempo avviene preponderatamente attraverso la fruizione di film e telefilm, è pressoché una certezza matematica; ed esso si fa agevolmente strada, si insidia subdolamente dal mondo della finzione a quello della realtà. Ecco dunque la donna come soggetto passivo, al massimo reattivo, fragile e pertanto bisognoso della massima tutela e del massimo accudimento da parte dell’uomo, soggetto attivo, creativo, forte.

Donna = vittima della situazioneUomo = eroe della situazione

Immersi nella narrazione, inconsciamente, l’uno è indotto ad aspettarsi dall’altro quanto previsto dal “ruolo” che ricopre, ad adeguarsi al proprio, di ruolo, e a comportarsi di conseguenza: un gioco delle parti. Un gioco che però può divenire malsano, tossico. In generale, da un lato si corre il pericolo di limitare le potenzialità della donna, degradando l’orizzonte delle sue possibilità percepite e reali, rendendola  effettivamente debole; dall’altro, di portare al sovraccarico mentale e/o emotivo l’uomo, sottoponendolo alla costante pressione di mirare alla figura mitica del “vero uomo”.

A non concedere adito alla vera natura dell’individuo non può venirne fuori niente di buono, ma solo miseria e infelicità.

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

A ognuno il suo Godot

A ognuno il suo (Godot)

A ognuno il suo Godot

Non sono un consumatore di opere teatrali, ma la fama “balzana” di Aspettando Godot, pièce di Samuel Beckett, ha finito per incuriosirmi (le stranezze calamitano con facilità).

Due atti, due tizi, due ore di attesa inconcludente presso un spiazzo desolato – che si vuole di meno? – . Tempo perso? Per i protagonisti è senza dubbio il caso; per noi, pubblico, sì e no. Sì poiché, assieme e alla stregua di Estragon e Vladimir, per l’intero svolgimento della rappresentazione, non facciamo altro che attendere la comparsa in scena del fantomatico signor Godot; no poiché l’opera, quello che vuole esprimere, il suo valore e pregio, è intrinsecamente inscindibile da quel vano aspettare, non potrebbe che essere interpretato, inscenato, che con quel vano aspettare.

Ma chi è questo tale, Godot? Un’incognita che rimane tale. Chiunque esso sia: sta senz’altro arrivando, arriverà.

La coppia è inchiodata, in attesa.

Sembra che incontrare il signor Godot sia la loro unica ragione di vita, la suprema giustificazione ontologica, il timbro che attesterà la legittimità, la consistenza del loro essere ed esistere; non a caso viene contemplato il gesto estremo, il suicidio.

Sul chiudersi della prima e della seconda parte, poco prima che il giorno ceda il passo alla notte, si fa avanti un messaggero inviato dal misterioso signor Godot, che mette al corrente i due poveri cristi che il suo padrone è impossibilitato a presentarsi, oggi, ma che indubbiamente si farà vivo, l’indomani.

Didi e Gogo – tra di loro si chiamano così, saranno i soprannomi – possono niente, solamente aspettare e sperare (non è dichiarato apertamente, però l’insolito fatto che il duo ha tutta l’aria di non rammentare il primo giorno di buca, porterebbe a pensare che i rinvii siano più di due…).

Aspettando Godot mi appare come una originale e indovinata rivisitazione, in veste teatrale, di quanto narrato nel mito di Sisifo, specificatamente per quanto compete la sua esemplare punizione. Da un lato, abbiamo la condanna di un attesa infinita e perciò futile, vuota, dall’altro, un uomo anch’esso condannato a un’azione  inutile e che fine non ha: spingere un masso su per un ripido pendio, unicamente per vederlo ruzzolare giù. Ma Aspettando Godot, dal mio punto di vista, non si ferma al solo riproponimento, è al contempo propositivo.

Entrambi si rifanno al grigiore e al nonsenso che impregnano nauseamente la vita; Beckett ci mette però lo zampino e nel suo lavoro da brillante sfoggio di come noi uomini siamo in grado di appesantire oltremodo il peso esistenziale: che entri l’angoscia.

A ognuno il suo Godot.

Tutti noi aspettiamo con ansia e trepidazione la venuta del signor Godot (più notoriamente: senso, felicità, realizzazione ecc.).

Ignoriamo totalmente il suo aspetto. Ne conosciamo solo il nome, così dolce all’udito, sicuri nondimeno di riconoscerlo al primo sguardo, a tempo debito.

Il debito non viene saldato.

Aspettiamo. Aspettiamo. E aspettiamo ancora. Di Godot si ha l’impressione che sia sempre dietro l’angolo, che sia in procinto di rivelarsi, ma il suo avvento viene rimandato. Rimandato. Rimandato più in là dell’orizzonte...

L’opera sembrerebbe ammonire: volete evitare di marcire d’angoscia? allora non limitatevi a pazientare, non rimanete con le mani in mano, non aspettatevi la pappa pronta, la carità divina: agite! muovete le chiappe e andate incontro al signor Godot!

Il successo, ovviamente, non è garantito, ma vista l’alternativa… poi, se uno proprio vuole/si trova ad agonizzare, meglio farlo in due, in compagnia: mal comune mezzo gaudio.

 

 

 

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,