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Chi ci capisce è bravo

Diciamocelo pure, abbiamo perso la trama… E da un pezzo. Fino al medioevo, direi che bene o male c’eravamo. È dalla modernità in avanti che abbiamo progressivamente smesso di capire il mondo.

L’illuminismo, il metodo scientifico, la rivoluzione industriale: il progresso. Bestia da soma che lemme lemme ha trainato l’umanità (o comunque una considerevole parte di essa) fuori da selve oscure, attraverso lande desolate, verso un orizzonte abbacinante di speranze e traboccante di abbondanza. Di fatto, assuefatti come siamo agli innumerevoli frutti del progresso tecnico-scientifico, è raro che uno si fermi a contemplare la straordinaria entità delle opzioni a propria disposizione; ma ancora più raro, infinitamente più raro, è trovare uno che possa in piena coscienza sostenere affermativamente di conoscere nel vero senso della parola ciò che in primo luogo permette quelle stesse straordinarie possibilità.

Se mi guardo un secondo attorno, mi posso rendere facilmente conto di essere contornato da cose ordinarie che sfuggono alla mia comprensione. Ne è un esempio lampante il laptop che mi sta di fronte mentre scrivo questo mio articoletto. Un oggetto che per quanto ne so potrebbe benissimo trattarsi del risultato scaturente da un rituale occulto di magia nera… Qualcheduno, di cui però non riesco a ricordare il nome, osservò che una tecnologia sufficientemente avanzata è pressoché indiscernibile da un sortilegio. Non credo che chi abbia espresso questo pensiero intendesse riferirsi alla nostra situazione attuale, ma direi che calza a pennello. Usiamo quotidianamente strumenti dei quali ignoriamo praticamente tutto: composizione interna, funzionamento (complessivo e delle singole parti), per non parlare poi dei principi fisici/chimici che ne stanno alla base.

Dopotutto, questo sembra un piccolo prezzo da pagare in cambio di uno status semidivino, no?

Non è forse irrealistico pretendere che la persona media possa essere abbastanza ferrata, non in uno solo ma in svariati campi del sapere tecnico-scientifico, tale da poter comprendere la complessa realtà nella quale è immersa? Voglio dire, abbiamo organizzato la nostra conoscenza e il suo perseguimento in ambiti così altamente specializzati, frammentati, compartimentalizzati che un esperto di x è alla meglio probabilmente mediocre per quanto riguarda y ed è certamente un profano su z. Insomma, ciò che ci “affligge” non è un qualcosa cui possiamo sperare di sopperire semplicemente con un’istruzione migliore – che d’altra parte non potrebbe mai stare al passo dell’innovazione che il tempo necessario per una nuova nozione/tecnica di venire formalizzata in un programma di studi, soprattutto in determinati campi, ed è già preistoria -.

Ma sì, consoliamoci del fatto che, grazie al motore capitalismo e ai suoi irresistibili incentivi, le conquiste esoteriche dei nostri sacerdoti, anziché rimanere prerogativa di pochi eletti, assumano invece una sembianza a noi comuni mortali più congeniale, accessibile, sfruttabile, ossia nella forma di prodotti o servizi destinati a soddisfare ogni nostro bisogno e capriccio. Auguriamoci solamente di non fare il proverbiale passo più lungo della gamba con l’intelligenza artificiale perché, a quanto pare, a stessa ammissione degli addetti ai lavori, ignoriamo che cosa avvenga realmente “sotto il cofano” di questi sofisticati algoritmi. Che il gregge sia smarrito, questo è un conto, magari tollerabile; ma che pure il pastore lo sia a sua volta… Beh, questo direi che non va affatto bene…

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In braccio a Morfeo passiamo 227.760 ore, ovvero 26 anni, ovverosia un terzo della nostra esistenza – ennesimo promemoria dalla sua scioccante brevità -.

Incoscienti. Inermi. Inerti. Una piccola morte, una perpetua prova generale per preparare a dovere lo spirito e le membra all’atto finale.

Gli occhi coperti – chiusi, non lo sono mai – ma febbrili. Destra, sinistra, su, giù: tracciano un reticolo immaginario di convulsa geometria. Come spaventati per via dell’oscurità sopraggiunta, avvolgente, totale, disperati sono in cerca di luce. Vogliono vedere. Qualcosa, qualsiasi cosa – forse sogniamo per vedere appunto qualche cosa, il tanto per non “dimenticarci” come si vede -.

Ci sono ancora. Pensieri… Oggi ho… Domani avrò… Un ricordo (apparentemente) stocastico del passato… SHHH! Non basta. Devo “chiudere” una seconda volta gli occhi. No, si tratta più di un “movimento” verso il basso, uno sprofondare. Rendere pesante la coscienza, tramutarla in un macigno in caduta libera e.. PUFF!

Impercettibile, un colpo fantasma. Dall’altra parte, in una transizione perfetta, fluida, senza smagliature, senza singhiozzi. Da qualche altra parte (del mio cervello?). Un’altra vita, un’altra esistenza, un altro piano del reale. Una dimensione vivida ma al tempo stesso eterea, instabile, al collasso imminente. Ambientazione e figuranti in un repentino flusso, rigurgito di ignota familiarità, un carosello di spezzoni alla rinfusa. Tutto è conosciuto. Tutto è normale. Nessun dubbio, nessuna sorpresa per quanto possa verificarsi, per come e quanto le leggi fisiche e logiche possano venire ripetutamente violate con nonchalance.

In questo mondo siamo al centro. Ogni cosa sembra gravitare verso il nostro sguardo. Ogni evento è intessuto di noi e su di noi. Non caso, in questa realtà vale il pensiero magico: la volontà sola è bastevole a piegare, blandire, controllare la natura al nostro benestare. In quei secondi/minuti – il lasso effettivo di un sogno – siamo degli dei (ma un dio può morire? O meglio, la sua controparte in carne ed ossa? Voglio dire, si può morire in sogno? O meglio, si può morire di un sogno?).

Il tempo del sogno scorre differentemente. Esso non è, come quello fisico, composto di istanti unitari giustapposti, ma di picchi e valli d’intensità slegati. Il tempo del sogno si espande e si contrae alla maniera di un cuore vivo, pulsante.

BOOM! La bolla scoppia. Ritornato. La coscienza al suo posto (originario?). Stordito, disorientato, traumatizzato dal viaggio, dalla cesura inopinata: un mezzo secondo di angoscia pura, poi, finalmente, il riassestamento. Sono qui.

Il ricordo, frammentario, si dissolverà nel giro di poche ore – è nel nostro interesse dimenticare? – : 26 anni di oblio.

26 anni di oblio

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Storiemania





C’è troppo da guardare, sul serio, c’è troppo da guardare.

Potresti mandare al diavolo tutto: lavoro, relazioni, hobby ecc., rintanarti in salotto, sprofondare nel divano e guardare, guardare e guardare. Davvero, potresti farne la tua missione di vita e non sarebbe abbastanza. A occhio e croce, è da un decennio che veniamo letteralmente sommersi da robe da vedere, un trend che non accenna affatto a diminuire, anzi, durante il periodo pandemico quest’ultimo ha goduto di un’ulteriore impennata, con la nascita di numerose piattaforme streaming on-demand.

Si direbbe quasi che il consumo di storie si sia ormai posizionato tra i bisogni primari dell’individuo. È una cantilena continua di “Hai visto…? Devi vederlo assolutamente! è pazzesco!!!“. Per non parlare del cosiddetto hype da, rispettivamente, pre-trailer, trailer # 1-2-3, e trailer definitivo. Come si spiega tutta questa insaziabile voracità di finzione?

Quando ci immergiamo in una storia, quello che facciamo è sottrarci alla realtà per concentrarci su una ricostruzione (più o meno fedele) della realtà. Se ci pensate, è un comportamento al quanto stravagante, per non dire assurdo. Voglio dire, prendete un qualunque animale allo stato brado che intenzionalmente e regolarmente decida di non badare, per un tot di tempo, alla realtà circostante… Non bisogna essere dotati di una fervida fantasia per presagire la più che probabile sorte alla quale andrebbe incontro l’animale in questione…

Noi per fortuna, che in virtù della nostra intelligenza ci siamo volentieri estromessi dal duro e spietato gioco della sopravvivenza animale, abbiamo il lusso di disconnetterci dalla realtà senza doverne pagare le conseguenze – non evidenti o immediate, comunque -. Ma non è che forse abbiamo “battuto la testa” nel mezzo del nostro cammino evolutivo e abbiamo acquisito per sbaglio un bisogno stupido, irrazionale: il bisogno di storie? Cerchiamo di risalire al quando del misfatto. Ovviamente, non si tratta di Netflix & co; è fuori discussione che quest’ultimi ci abbiano condotto a nuove vette di ossessione, ma l’appetito c’era già. Andando semplicemente a ritroso nel tempo, potremmo puntare il dito sui fratelli Lumiére; prima di loro, su Gutenberg; prima di lui, su chiunque abbia composto l’epopea di Gilgamesh. Non dobbiamo però scordarci che, prima di immagini o segni, in principio era la voce. Cantastorie, cantastorie ovunque. Possiamo scavare ulteriormente? Bè, sì. Ci rimane un’ultima vangata prima di cozzare con il fondo. Logica vuole che prima dei cantastorie vengano necessariamente i crea-storie. E chi sono costoro? Quelli che inconsapevolmente hanno dato il via all’infinito reame della fantasia/finzione? Ma sì, stiamo parlando dei vari stregoni, sciamani, sacerdoti ecc., uomini di notevole carisma e ingegno che, vuoi perché spinti dall’esigenza di assegnare un ordine, una spiegazione al caos del mondo, vuoi per accaparrarsi una comoda posizione di potere e prestigio, hanno preteso di conoscere l’origine dell’universo e le leggi che lo governavano, di più, di avere un rapporto speciale, privilegiato con chi quello stesso universo lo aveva creato… Insomma, i miti della creazione, la (proto)religione: ovvero l’anno zero delle storie.

Va bene, siamo forse pervenuti agli arbori, al Big Bang che ha generato ciò che possiamo letteralmente definire un universo di narrazioni in continua espansione, ma il quesito di fondo rimane: perché tutta questa fascinazione? Per i nostri remotissimi antenati tutto quel parlare di genesi, divinità, spiriti, demoni ecc. aveva un’utilità pratica, reale, strettamente connessa con il prosperare o meno della comunità, con la sua stessa sopravvivenza (o perlomeno questa era la percezione/convinzione). Ma noi?

Guardiamo, leggiamo, ascoltiamo opere di finzione per il semplice e puro piacere che ne traiamo? Non è che, sotto sotto, è sempre la medesima storia? L’ambiente nel quale oggi ci troviamo ad operare – e con “ambiente” intendo molte cose: cultura, tecnologia, società ecc. – non ha nulla o quasi da spartire, per dire, con un insediamento umano di 10000 anni fa. Di converso, strutturalmente parlando, non siamo cambiati, come specie, di una virgola.

E se vi dicessi che guardiamo Stranger Things per aumentare le nostre possibilità di sopravvivenza? Naturalmente, 1) si tratta di un input inconscio; non penso siano in tanti coloro che deliberatamente leggono un romanzo o guardano una serie con il preciso intento di essere “the last man standing”. 2) il nostro cervello non è un esperto di sopravvivenza, non sa realmente distinguere quello che potrebbe rivelarsi vantaggioso da ciò che nemmeno se vivessimo un migliaio di vite, avremmo l’occasione di mettere in pratica o, peggio, da ciò che è semplicemente un comportamento dannoso da adottare (specialmente nel lungo termine). Il cervello è un tipo semplice. Presiede a innumerevoli funzioni fra cui quella di prevenire, se va bene, gestire, se va un po’ meno bene, situazioni di pericolo che minacciano la nostra integrità fisica. La sua parola d’ordine? Dati. Dati a più non posso (poiché non si può mai sapere, just in case). Dati da elaborare in informazioni, esperienza, risposte idonee. In definitiva, un comando biologico mascherato da piacere dello spirito. Una conclusione che non è proprio un fulmine a ciel sereno, visto che con facilità tutto sembra, in ultima analisi, riconducibile all’evoluzione e cioè alla sopravvivenza dell’individuo, della specie, dei geni.

E quando un algoritmo biologico affamato da scenari ipotetici incontra un algoritmo artificiale ideato per soddisfare al meglio quel bisogno (senza il rischio di venirne esposti in prima persona), ecco che assistiamo alla creazione di una tempesta perfetta: l’attuale storiemania.

Niente di male, si dirà, a parte l’erosione del nostro tempo. Mhh… Le cose non stanno esattamente così..

Tu saprai benissimo di calarti in una fantasia più o meno aderente al reale ma, come già in precedenza sottolineato, la tua psiche questo non può saperlo, limitandosi a fare una cosa sola: assorbire.

Se una bugia viene ripetuta abbastanza, essa finisce per suonare vera.

Il rischio di consumare passivamente, acriticamente enormi quantità di storie è quello, ahimè, di accogliere involontariamente molte lezioni, peggio ancora, verità. È semplice dimenticare che ogni storia è essenzialmente un sistema chiuso, un esperimento condotto in laboratorio, un ambiente controllato dove condizioni e variabili sono tarate in modo tale da ottenere l’esito ricercato. Banalità in arrivo: l’autore di una storia può far accadere ciò che più gli pare e piace (ovviamente sempre entro certi limiti narrativi) e questo può chiaramente rappresentare un problema. Con ciò, non voglio di certo sostenere né che chiunque s’inventi una storia sia indubbiamente in malafede e abbia il subdolo intento d’ingannare e/o indottrinare i fruitori dei suoi contenuti, né tantomeno che da una storia non si possano mai ricavare importanti spunti di riflessione o edificanti esempi da imitare… Il punto è che ogni autore è umano: originale, irripetibile sedimento di distorsioni, distorsioni che inevitabilmente vengono distillate nei propri lavori. E a me pare, anche senza contare i più abili nell’agitare a piacimento le corde delle emozioni e dei sentimenti dell’animo umano, o i più convincenti nell’addurre brillanti argomentazioni (pseudo)logiche, che siamo, a nostro malgrado, dei grandi “creduloni”, assai vulnerabili al ripetuto infrangersi di infinite storie sul piccolo promontorio della nostra mente.

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Una vita senza significato

Una vita senza significato

È possibile reggere il fardello di una vita sprovvista di un filo conduttore? È possibile in essa la felicità? O se non quella, è possibile comunque vivere una vita decente, accettabile, se non si ha uno scopo di fondo, se non si ha un Perché?

Partiamo per gradi. Sappiamo – o quanto meno dovremmo- che porsi la domanda su quale sia il Senso della Vita in generale equivale a porgersi la domanda sbagliata (ciò che chiamiamo “senso”, un qualcosa che ci è certamente molto caro, è un costrutto della mente umana, esiste unicamente entro le anguste e buie pareti della nostra scatola cranica, non è là fuori; la vita è semplicemente un’ostinato moto di ribellione nei confronti di un’invariabilità che ha sempre l’ultima parola), poiché la domanda giusta è: “Qual è il senso della mia vita?“. O ancora meglio: “A che cosa mi sento spontaneamente di voler dedicare la gran parte della mia vita?“. Per taluni quel qualcosa è semplicemente il loro lavoro, per talaltri un traguardo personale da raggiungere a tutti i costi, un sogno da strappare dal reame dell’eterea fantasia e tramutare in concreta realtà; per altri ancora si tratta di una causa o un’ideale per cui lottare e, se richiesto, sacrificarsi; poi ci sono quelli più “sofisticati” che prendono un proposito a loro congeniale e lo elevano al grado di imperativo-filosofia di vita a cui tendere o attenersi (come ad esempio il “become the best version of yourself”, che piace assai agli americani) – tipologia questa a me maggiormente affine -; infine abbiamo coloro che non vivono per qualcosa, ma piuttosto per qualcuno: i figli, la famiglia, gli amici, il prossimo bisognoso, l’amata/o, il criceto.

Ma se ci si ritrova in quel (esiguo?) novero di individui, in un certo qual senso, scarsamente umani, ai quali non è dato di potersi fregiare di un senso proprio, distintivo? Che cosa rimane, a quel punto? La vita? Destarsi, sopperire ai vari bisogni del corpo, assolvere alla propria mansione lavorativa per procacciarsi il sostentamento economico, togliersi qualche sfizio dello spirito, obliarsi. Ripeti (ad mortem). Più un sopravvivere che un vivere. No problem per qualsiasi altro essere vivente del regno animale e vegetale, anzi niente di più naturale, viceversa per noi homo sapiens è un briciolo più tosta la cosa… Il prezzo che dobbiamo sobbarcarci per un apparato cognitivo superlativo. “Chi sono io?”, “Qual è la mia ragione di vita?”, non udirete mai un toro rivolgersi melanconico questi interrogativi… Farà semplicemente il toro, vivrà da toro; la nostra capacità di interrogarci e interrogare il mondo può essere vista al contempo come il dono più grande e la croce più greve.

Ebbene, in che modo dovrebbe comportarsi colui il quale non ricevesse alcuna risposta alle proprie suppliche all’infuori di un vuoto e stordente eco di ritorno? Come scongiurare l’implosione? Forse fare finta di nulla, tentare di dimenticare abbandonandosi meccanicamente e passivamente alla potente e ipnotica forza d’inerzia rappresentata dalla quotidianità? Ma ciò non sarebbe uno spreco? Dipende. Tecnicamente, fintantoché uno riuscisse, con successo, a trasmettere la propria partita di cromosomi, allora porterebbe a termine la sua missione naturale e quindi il suo ciclo vitale non si qualificherebbe quale spreco. Del resto, però, non è certamente questo che intendiamo quando parliamo di una vita sprecata. Intendiamo… che cosa intendiamo esattamente? Una vita passata sotto l’egida autodistruttiva del male e del vizio? Una vita che a conti fatti è inoperosa, infruttuosa, che non apporta valore aggiunto? Una vita il cui baricentro graviti esclusivamente su sé stessa e il suo godimento? A ben vedere si direbbe che sprecare una vita corrisponda a spenderla contrariamente ai dettami della morale, e, di converso, una vita ben/pienamente vissuta è una che abbraccia la morale. Siamo tuttavia sicuri che sia il metro giusto? – senza nulla togliere a una vita animata da uno sforzo etico -. Volendo essere ancora più scettici: è possibile valutare oggettivamente il valore di una vita? Soprattutto, ci è concesso di farlo?

Prendiamo per assurdo il caso una persona che trascorra le sue giornate a pettinare con amore e diligenza i fili d’erba componenti il giardinetto di casa. Per quanto agli occhi degli altri la sua sia un’occupazione eccentrica, ridicola, inutile, per la persona in questione significa tutto; solo quando si prende cura dei suoi adorati filamenti erbosi, egli può affermare di essere ricolmo di gioia, di sentirsi vivo. Certo, a mani basse, senza riserve, potrei facilmente giudicare la sua vita uno spreco totale, ma avrei torto marcio. Mi verrebbe da dire che ognuno “spreca” la vita a modo suo e che il vero spreco consista nel non essere autenticamente sé stessi.

Ecco che a ben sperare si è aperto uno spiraglio: forse non tutti hanno la fortuna di avere qualcosa da innalzare con fierezza e fermezza al sommo altare del senso ultimo, ma ciò non implica per forza di cose una condanna a vivere una vita priva di gioie e gratificazioni, in fin dei conti è sufficiente che il nostro cuore pulsi per qualcosa… La biologia farà il resto. Oppure insistere? Dopotutto, non è affatto detto che si debba avere questo genere di risposte già in giovane età. La durata della vita verrà sempre reputata troppo breve, ciò nonostante l’aspettativa media di vita mondiale continua e continuerà, suppongo, a salire, magari sino a toccare persino i 100+ anni – e non vogliamo mettere che a furia di esplorare in lungo e in largo, seguitando, si spera, a fare costantemente nuove esperienze, ricercando con mente aperta nuovi stimoli, qualcosa, nel lasso di tempo di un secolo, la troveranno anche i più “difficili”? -. Comunque sia, se non riesci in tempo utile a inquadrare bene o male il disegno della tua esistenza, stai pur tranquillo che saranno gli altri a farlo, per praticità e/o capriccio, in tua vece (raramente prendendo in considerazioni i tuoi reali interessi-sentimenti).

C’è da evidenziare però il fatto che attribuire un significato alla propria vita non è sicuramente roba che si presti tanto bene a essere archiviata in via definitiva e per di più in una singola seduta esistenziale… La realtà muta ogni istante che trascorre, e noi con essa – tanto per dare un’idea dell’incessante cambiamento in atto, da oggi a 5 anni, il mio corpo sarà interamente composto da una schiera di atomi nuova di conio -. Difficilmente, ci si porterà appresso lo stesso e identico Senso fino alla tomba, è molto più probabile che nel corso della vita si finisca col identificarsi con diversi (e magari diametralmente opposti) Perché.

Certo però che noi post-moderni ultra secolarizzati ci ritroviamo più che mai svantaggiati sul fronte “senso della vita” rispetto ai nostri vecchi predecessori, avendo ormai la nostra società enormemente ridimensionato la valenza della figura “Dio” come sacro faro per la vita dell’individuo e indiscusso collante della vita collettiva. D-I-O. Un tempo era sufficiente ripetersi intimamente queste tre lettere per placare l’animo inquieto, per colmare di un infinito senso e significato la propria vita (e la propria morte)… Ora, all’altezza o meno, spetta a noi.

Insomma, è possibile un qualcosa che anche solo vagamente rassomigli a un lieto fine per coloro i quali macinano chilometro su chilometro percorrendo la maestosa strada della Vita, nonostante il poco invidiabile circostanza di non essere alimentati da nessun carburante in particolare? Bè, che altro dire salvo che tutto dipenderà dalla costituzione umana di ciascuno? Ci saranno quelli che privi dell’ausilio di una stella guida come punto da riferimento, in preda a un panico incontrollabile, finiranno per precipitare nell’abisso più nichilista; altri, non senza affanni, adatteranno gradualmente i loro occhi a fendere la tenebra di una notte senza stelle, scoprendo, forse, un mondo tutto sommato pregevole.

Ma terminiamo in una nota di carattere pratico. Tempo fa lessi da qualche parte che per scongiurare di entrare in piena modalità crisi esistenziale basta adottare la seguente (banale) ricetta: seguire una dieta sana, fare regolarmente esercizio fisico, dormire come si deve, avere una vita sociale attiva. Per prevenire i mali dell’anima, curare i bisogni del corpo, sembrerebbe.

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Un fiume non viene mai sceso due volte dallo stesso Eraclito

 πάντα ῥεῖ

Tutto scorre, tutto fluisce, tutto muta. Ciò lo appuriamo facilmente a proposito del mondo esterno e degli infiniti oggetti che lo popolano; più difficoltoso è ,invece, rammentare che lo stesso principio vale anche per noi. Siamo naturalmente preda di un’illusione/narrazione che ci fa percepire di essere un insieme coerente, lineare, finito. Ma questa sensazione istintuale è, appunto, una mera illusione operata dalla nostra mente, un artificio cognitivo necessario al vivere: l’identità, l’Io. Quello che definiamo “Io”, lungi dall’essere quel tutt’uno compiuto e ordinato, è più correttamente rappresentabile come quell’ammasso intricato di atomi, cellule, carne, memorie, idee, paure, aneliti e quanto altro compone una persona in un dato momento , ed esso non esiste in una dimensione altra, trascendentale, metafisica, non sottoposta alla giurisdizione del moto, imperitura, no, fa parte del mondo, del tutto e, quindi, in perpetuo divenire: ciò che ieri ero oggi non sono, ciò che oggi sono domani non sarò: Io non sono mai, divengo sempre Io.

Comunque, l’oggetto di reale interesse, almeno dal mio punto di vista, non è tanto accorgersi della natura intrinsecamente elusiva, ambigua dell’Io – che alla stregua di un fantasma possiamo vedere ma non toccare – , bensì l’atto di raffrontare qualitativamente i diversi Io. Non mi riferisco ovviamente all’evoluzione fisica o a quella dei gusti in materia di musica, cibi o che so io, ma al mutamento, in taluni casi anche sostanziale, del “contenuto” cranico. Rispetto a dieci o solamente cinque anni fa, adesso ne so di più; mi sono imbattuto in nuovi concetti, mi sono misurato con nuove idee. In cuor mio posso dire tranquillamente di avere acquisito una maggiore conoscenza e comprensione di me stesso e del mondo. Ciò è di sicuro una cosa di cui rallegrarsi e magari andarne pure orgogliosi, ma non è dal semplice fatto di aver arricchito il mio patrimonio intellettuale che ricavo un senso di piacevole stupore quando il mio pensiero si sofferma sulle differenze mentali che intercorrono tra l’Io attuale e quello trascorso.

Il bello di apprendere non sta nel brivido di collezionare via via un numero crescente di saperi per sentirsi invulnerabili nei confronti di tutto e di tutti, per arroccarsi nella torre di avorio più alta e inespugnabile che ci sia, dove potersi crogiolare indisturbato nella più assoluta compiacenza di sé; il bello di apprendere qualcosa di nuovo sta nella magnifica possibilità di trasmutare quello che già sapevi, o credevi di sapere, di vedere la realtà sotto una luce nuova. Sicché, nel corso del tempo, sulla scia di nuove impressioni, non vi è praticamente atomo di pensiero che abbia ritenuto il suo carattere originario, di partenza, di concepimento: revisioni, rinnovamenti, rigetti: un panorama “ideale” soggetto al costante imperversare dall’agente del divenire. C’è da dire, però, che, in mezzo agli incalcolabili cambiamenti a cui andiamo in contro, non è sempre agevole ricordare chiaramente posizioni e vedute una volta sostenute, specie se a distanza di anni. Ed è in questo frangente che trovo di immenso giovamento (e diletto) andarmi a rivedere film, serie tv, anime, a rileggere libri e, nel mio caso specifico, i miei articoli – un’esperienza davvero esilarante – . A ogni tuffo nel passato, si sa, la nostalgia colpisce duro, te lo aspetti ma non puoi opporre resistenza, ti prende sempre alla sprovvista; ma, per me, non è la sola a sortire un effetto considerevole sul mio stato d’animo: la constatazione, la constatazione di non pensarla più alla stessa maniera di un tempo, di non essere più la stessa persona di un tempo, di essere mutato (e che questo processo continuerà fintantoché vivrò).

Esiste forse qualcosa di più esaltante?

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Se un pulcino non dovesse riuscire a rompere il guscio del suo uovo, esso morirebbe senza essere mai neanche nato. Noi siamo il pulcino. Il mondo è il nostro uovo. Se non infrangeremo il guscio del mondo, moriremo senza essere mai veramente nati. Manda in frantumi il guscio del mondo! Per la rivoluzione del mondo!

Chiho Saitō, Be-Papas – Utena la fillette révolutionnaire

Abrahaxas

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Vi è uno e uno solo innato equivoco, e cioè la nozione che esistiamo per essere felici… Fintantoché ci ostiniamo in questo innato equivoco, il mondo ci sembrerà traboccante di contraddizioni. Poiché a ogni piè sospinto, in cose serie o di poco conto, siamo destinati a esperire che il mondo e la vita certamente non sono accordati al fine di sostenere un’esistenza felice…

Arthur Schopenhauer

Un disastroso equivoco

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Nessuno può erigere il ponte sul quale tu, e solo tu, devi attraversare il fiume della vita. Ci potranno essere innumerevoli sentieri e ponti, e semidei i quali sarebbero ben lieti di tenderti la mano e accompagnartici; ma unicamente al prezzo di rinunciare e sacrificare te stesso. C’è un sentiero a questo mondo che nessuno al di fuori di te può solcare. Dove esso conduce? Non invocare, muoviti!

Friedrich Nietzsche

Solo tu

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L’uomo era andato incontro ad altri mondi e ad altre civiltà senza conoscere fino in fondo i propri anfratti, i propri vicoli ciechi, le proprie voragini e le proprie nere porte sbarrate.

Stanisław Lem – Solaris

Esploratore sprovveduto

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Dopo un anno, e qualcosa di più, di lavoro a contatto con il pubblico, una cosa posso affermare fuor di qualunque ragionevole dubbio: nella gente non vi è traccia alcuna di quel lume della ragione tanto caro agli illuministi.

Giorno dopo giorno, interazione dopo interazione, l’uomo della strada non ha fatto altro che dare schiacciante prova del profondo sonno in cui versa il suo intelletto. Si badi bene, chi scrive non si reputa di certo dotato di chissà quale acuto e penetrante intelletto, per carità, ma perlomeno ritengo di potermi dichiarare, senza arroganza, una testa pensante… Al contrario, nell’individuo medio, per dirla aristotelicamente, pare in atto la sola anima sensitiva: l’appetito e l’istinto la fanno chiaramente da padroni; egli è mosso da un automatismo animale e in quanto tale è avverso, idiosincratico nei confronti del discorso razionale: non ne fa uso né è disposto a prestarle ascolto, trincerato com’è nel suo gretto fortino edificato su cumuli e cumuli di stereotipi, fesserie e ragionamenti sconclusionati.

Sicuro, è irrealistico aspettarsi che la maggioranza della popolazione eccella nella pratica della riflessione o che possegga uno spiccato spirito critico, ma certamente non sarà così ignorante e stolta come viene per tradizione dipinta da una retorica élite fuori da questo mondo… – pensavo. Mi sbagliavo (in larga parte).

Confesso che di quando in quando faccio ancora fatica a raccapezzarmi all’idea di un’umanità di siffatta risma e mi domando, allibito ogni volta: come diavolo fa il mondo a “girare”? I  miracoli esistono. Il solo fatto che io abbia condiviso queste righe, non su di un semplice pezzo di carta, ma su di una piattaforma di computer intercontinentalmente connessa, denominata internet – con tutto ciò che questo presuppone in termini di conoscenze fisiche e tecnologiche pregresse – , è già di per sé qualcosa che dovrebbe destare enorme stupore…

Per finire, non saprei stabilire se lo stato delle cose sia imputabile all’adozione di un sistema educativo disastroso, e quindi il prodotto di un certo tipo di società/cultura, o se invece si tratti di una realtà connaturata alla condizione umana, e quindi il naturale stato delle cose. Probabilmente, entrambe le cose; o meglio, l’ultima che viene amplificato in modo esponenziale dalla prima. Boh.  Mi auguro solamente che l’inevitabile e prolungata esposizione “zombificante” che mi attende non incida troppo pesantemente sulle mie facoltà mentali, ottundendole oltre l’irreparabile…

 

Buio

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Lezione Levov

Lezione Levov

Lezione Levov

Ma cos’ha la loro vita che non va?

Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?

È con questi due interrogativi carichi di uno sgomento inarrivabile che si chiude il devastante Pastorale americana di Philip Roth.

[SPOILER?]

Un uomo, Seymour Levov, detto lo svedese, il mitico svedese di Weequahic, Newark, New Jersey, che perde tutto (disilludendosi da una rosea visione della realtà): l’adorata figlia Merry è una terrorista-bombarola-assassina convertitasi al gianismo; l’incantevole consorte Dawn, ex miss New Jersey, pare voler voltare pagina ed entrare a far parte dell’insigne casata degli Orcutt; il rispettato padre, mastro guantaio, uomo di vecchi, sanissimi principi, muore d’infarto alla vista e alle parole della nipote che confessa di aver ucciso non una ma ben quattro persone innocenti; Volendo supportare la ripresa psicofisica della moglie, si vede costretto a lasciare la sua casa di campagna, nell’idillio di Old Rimrock, simbolo della vita desiderata, una vita semplice, ordinata, “fisica”, una pastorale americana.

Ma lui non ha “colpa”, non c’è “niente” che non vada nel modo in cui ha condotto la sua vita; i Levov non sono riprovevoli (a parte il ributtante moto di paternalismo esibito dal vecchio Lou a fine romanzo…), o meglio, non è questo il punto – almeno per come la vedo io, sia chiaro – . Certo, nel processo degenerativo di Merry, a Seymour gli si può imputare la sua parte di responsabilità, ad esempio può essere rimproverato per la sua troppa tolleranza nei confronti di una figlia evidentemente disturbata e non semplicemente affetta, in modo acuto, dal travagliato periodo dell’adolescenza. Ma un tentativo di retrospezione volto a ricostruire la catena causale degli eventi che fecero sì che la tragedia si abbattesse sulla famiglia Levov, risalire cioè al momento x, alla perpetrazione del “peccato originale”, non solo è un’operazione votata al fallimento (la memoria è fallibile, non possiamo mai avere la conoscenza certa di cosa abbia scatenato cosa, ecc.) ma, in questa istanza, significa pure dimostrare di non aver colto l’essenza di quanto accaduto.

Pastorale americana non è la storia di un uomo retto che, accidentalmente, a sua insaputa, compie un peccato mortale e ne subisce il dovuto contrappasso; no: è la storia di un uomo alla cui porta viene a bussare la Realtà (il malcapitato trattiene il respiro, si trattiene dal fare il minimo rumore, vuol far credere che non ci sia nessuno in casa, spera che dopo un paio di scampanellii la guastatrice si arrenda e tolga il disturbo, ma essa non indugia in tanti complimenti, prende una lunghissima rincorsa e a gamba tesa sfonda fragorosamente la porta). Lo svedesone credeva in un mondo fatto principalmente di ordine, in un mondo di belle cose punteggiato qua e là da qualche neo trascurabile o perlomeno, sopportabile. Un mondo in cui se seminavi Bene, allora ricevevi Bene; un mondo in cui se facevi i “passi giusti”, allora finivi per ottenere la felicità del cuore e la serenità dell’anima; un mondo in cui se eri armato di un amore infinito e di una indulgenza caritatevole, allora potevi sistemare ogni cosa. Una fantasia che si è venuta gradualmente a incrinare, di crepe prima indiscernibili e poi mano a mano sempre più vistose, per attrito con la Realtà, finendo, al culmine della frizione, con il frantumarsi in mille pezzi.

Meredith Levov è incarnazione del Caos che soggiace e impregna la Realtà. Il Caos è, come noto, una forza cieca e anarchica, tanto creatrice quanto distruttrice: pretendere di domarla o acquietarla è semplicemente un controsenso, al suo cospetto non c’è ammontare (e ammantarsi) di senso e razionalità capace di reggere ai suoi violenti fendenti ; e dei bei sentimenti e delle buone intenzioni non sa proprio che farsene...

I “Perché?”, i “Che cosa ho sbagliato?”, i “È questo che mi merito?”, sono, in conclusione,  più che vani.

 

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Come si fa a manipolare e controllare un’altra persona? «È semplice» rispose. Mi chiese dove vivessi. Quando risposi Vienna, egli disse: «Allora, può disegnarmi una mappa accurata della città, inserendo ogni singola via?». Mi feci venire il mal di testa per lo sforzo, e cominciai a disegnare una cartina sul mio taccuino, mentre lui osservava attentamente le espressioni sul mio viso. Quando ammisi la sconfitta, egli prese il mio disegno. «Quale zona di Vienna è questa?» domandò. Imbarazzato, risposi che erano i dintorni del luogo in cui vivevo, e lui, fissandomi negli occhi: «Allora per lei questo è il centro della città; no, del mondo. Quando lei immagina Vienna, usa il luogo in cui vive come punto di partenza». Quando annuii per dimostrargli che avevo capito, proseguì: «al centro della sua mente, proprio come in questa mappa, giacciono le basi del suo io… la sua identità». Annui nuovamente. «Improvvisamente, i suoi punti di riferimento vengono rimossi. Questo centro non ha più significato. C’è n’è uno molto più adatto. Questo è ciò che definiamo lavaggio del cervello», sorrise, «e quando i riferimenti di una persona vengono rimossi, la si intrappola con le parole, con gentilezza e precisione, privandola della possibilità di pensare, offrendole un nuovo luogo in cui vivere. Troverà che gli esseri umani seguono le istruzioni di chiunque fornisca loro questa nuova dimora, e diventano sorprendentemente docili».

Naoki Urasawa, Takashi Nagasaki, Werner Weber – Another Monster: The Investigative Report

Lavaggio del cervello

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Mi sono fatto attendere, ma alla fine una risposta l’ho trovata. Tempo fa, ormai più di un anno fa, scrissi un articolo nel quale proclamavo, con fare faceto, la mia intenzione di venir meno a ciò che tranquillamente possiamo definire la vocazione biologica ultima, quella che interessa e accomuna tutte le forme di vita: assicurare il proseguimento della propria specie veicolandone il patrimonio genetico; moltiplicarsi, procreare insomma. In quell’istanza, però, la mia rimase un’asserzione sorretta da nient’altro che un’intuizione uterina. Ma, come qualvolta inspiegabilmente e ironicamente accade, quando uno si affanna a più non posso nel trovare la soluzione a un problema e non ci riesce, si distacca completamente dalla ricerca e nel mentre di tutt’altra la soluzione al precedente problema si fa come avanti di sua spontanea volontà, qualche giorno addietro, quando oramai nei miei pensieri della questione “no figli” non vi era assolutamente la benché minima traccia (o almeno è questo ciò che mi è consentito di affermare), ecco che un perché si è rivelato, folgorante, inatteso. Sensato? non saprei.

Noi esseri umani siamo davvero strani. Un costante e adeguato nutrimento, un riparo atto a proteggere dai predatori e a schermare dalle intemperie, la disponibilità di uno o più partner sessuali, l’appartenenza a un gruppo, tutto ciò è quanto basta per soddisfare l’esistenza delle altre specie, ma non quella dell’uomo (di norma). Noi necessitiamo, esigiamo il soddisfacimento, la realizzazione di un bisogno “superiore”: trovare, meglio ancora, conferire un qualche significato, un qualche valore, un qualche scopo al transitorio esserci che è la vita di ciascuno; pena l’essere avvinghiati perennemente da un sentimento di vuotezza e futilità: l’essere un guscio che cammina…

“Diventa te stesso!”, tuonava Nietzsche. Un’impresa nel più vero senso della parola. E a me pare che molti si sottraggano dalla gravosa chiamata ricorrendo ad una precisa scappatoia, ovvero quella di incuneare saldamente la propria vita al ruolo sacro di genitore. Mi correggo, piuttosto che di una fuga, sarebbe più giusto dire che si tratta di scegliere la maniera più “facile”, di default, per soddisfare quel nostro bisogno metafisico di senso e finalità, poiché totalmente in linea con ciò che la natura da noi richiede: figliare.

Diventare padre/madre ti cambia radicalmente la vita, si dice, e a buona ragione.

È inevitabile. Il nascituro è destinato, con la sua venuta, a detronizzare l’Io del genitore dal suo centro focale, assestando un nuovo gioco di equilibri chiaramente a sfavore, a discapito della soggettività del secondo. In altre parole: essere genitori vuol dire vivere per i figli; mettere la loro esistenza in capo alla propria. E in ciò nulla di male, ci mancherebbe… ogni manifestazione di amore è certamente la bene accetta, vitale, in un mondo, quello umano, che altrimenti sarebbe un luogo incredibilmente arido e squallido.

Avete ora inteso il perché dietro alla mia importante decisione di non volere dei figli?

Desidero che il motivo conduttore della mia vita (attualmente dai contorni sfumati) sia localizzato internamente, in me, a partire da me.

Puro esempio di egoismo? Non credo. Ma se essere egoisti significa voler vivere per stessi anziché per gli altri (il che non equivale a dire di preoccuparsi e occuparsi sempre ed esclusivamente di sé), allora sono felice di esserlo!

 

 

Il perché non voglio figli

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Essere una minoranza, pure una minoranza di uno, non ti rendeva folle. C’era la verità e c’era la falsità, e se ti aggrappavi alla verità anche contro il mondo intero, non eri folle. La sanità mentale non è un fatto statistico.

George Orwell – 1984

Minoranza di uno

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Umwelt

Umwelt

Umwelt

Un Mondo in Sé, Oggettivo: non esiste; o meglio, non è dato a Nessuno, di sperimentarlo.

Proprio così, non solamente il mondo che ci circonda è sterminato nell’estensione e di una complessità indicibile ma, come ciliegina sulla torta, è altresì irrimediabilmente inaccessibile, inconoscibile, in sé, per ciò cui esso genuinamente è… Questo vale per me, per te, per l’intera razza umana; ma non solo, lo stesso vale per il cane del mio vicino, che si crede un lupo e si mette a ululare nel cuore della notte, e la zecca che vampirizza la sua epidermide; per il piccione con pulsioni suicide che sembra volere a tutti i costi finirmi sotto le ruote; per il tonno pinna gialla che senza saperlo abbocca per l’ultima volta; per il gigantesco  secolare che scorgo erigersi, in lontananza, in tutta la sua maestosità, dal mio balcone; per il batterio solitario che, a differenza del 99% del suoi simili, sopravvive all’amuchina. Vale per ogni forma di vita, dalla più elementare alla più sofisticata: Nessuno vive il Mondo per quello che È, ma viene vissuto in un’infinità di guise eterogenee. Un fatto non da poco. Se faccio contemplare a dieci persone un dipinto, avrò potenzialmente un egual numero di interpretazioni, ciascuna delle quali rifacentesi a distinti modi di vedere, di vivere quello stesso dipinto.  Ma per quanto un giudizio espresso da uno sia inconciliabile con quanto espresso da un secondo, gli interlocutori si possono comunque “ritrovare” nella veduta dell’altro – un tentativo di immedesimazione è possibile – , poiché, nonostante la divergenza di opinioni: essi condividono il medesimo Umwelt di riferimento.

Nel caso invece di Umwelt diversi, il discorso cambia totalmente: la discordanza è al livello della realtà stessa! E non vi è assolutamente l’eventualità di una identificazione reciproca: non potrò mai sapere che cosa si prova a essere un pipistrello (e viceversa).

Ma che cos’è l’Umwelt?

Nel mondo sterminato che circonda la zecca, tre stimoli brillano come segnali luminosi nell’oscurità […] L’intero, ricco mondo che circonda la zecca si contrae su se stesso per ridursi a una struttura elementare, che consiste ormai essenzialmente di tre sole marche percettive e tre sole marche operative: il suo ambiente

Von Uexküll – Ambienti animali e ambienti umani

L’ampiezza e la ricchezza dell’Umwelt di ogni animale dipendono dalla struttura morfologica dei suoi organi. Per il ciclo funzionale della zecca che non vede, non sente e non possiede il senso gustativo, hanno significato solo tre elementi del mondo esterno: l’acido butirrico emanato dal sudore dei mammiferi, il calore emesso dal corpo e dal sangue che l’animale avverte con il senso termico e la pelle liscia che percepisce facendosi spazio tra i peli grazie alla sensazione tattile.

Von Uexküll E G. Kriszat – Mondi invisibili

L’«ambiente», dunque, un modello e una modalità di mondo.

Senza già dover chiamare in causa l’esistenza supposta di universi paralleli, il mondo ospita entro sé una pluralità infinita di piani d’esistenza, di universi soggettivi, “speciali”. Lo spontaneo convincimento che ciò che i nostri organi di senso ci consentono di percepire sia il mondo in sé e per sé è perciò pura illusione. Ma sarebbe da qui erroneo trarre la conclusione fallace che ciò di cui facciamo esperienza sia parimenti una fantasia della mente, un’allucinazione dei sensi: esso è il mondo-per-noi: uno strato del Mondo in Sé. Ogni specie vivente vive nel suo strato di realtà, nella sua nicchia di mondo, nel suo Umwelt.

Questo fatto non è certo privo di ripercussioni… per dirne una, mina alle fondamenta quella visione della scienza come disciplina che pretende essere studio oggettivo e quindi accurato del reale.

Non Scienza ma scienza umana.

Anche nella remota possibilità di un contatto con organismi extraterrestri, intelligenti al pari nostro,  dubito fortemente che potremmo comparare e scambiarci gli appunti (maggiormente se presenti abissali differenze anatomiche e morfologiche)…

Per quanto la nostra esperienza del mondo non risulti minimamente scialba, ma al contrario ragguardevole nella ricchezza di stimoli sensoriali , non posso distogliere il pensiero dalla zecca e alla sua limitatezza “ambientale” (della quale essa è totalmente all’oscuro): che, nella maniera della zecca, i nostri limiti strutturali ci rendano insensibili e pertanto precludano ricchezze inenarrabili?

Chissà quanto e che cosa ci è invisibile… la sedia sotto di me, il cielo stellato sopra di me, me medesimo, chissà…

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È certo che al mondo nulla è necessario agli uomini quanto l’amore

Johann Wolfgang von Goethe – I dolori del giovane Werther

Vitale amore

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Armonia nella stonatura

Armonia nella stonatura

Armonia nella stonatura

La gente è perlopiù stonata; io pure. Con una pratica rigorosa (ma soprattutto sapiente) è possibile sopperire parzialmente alla mancanza di talento innato e, in certi casi, arrivare anche ad alti livelli. C’è però una seconda via per esibire immediatamente, ma solo momentaneamente, una voce intonata. È un fenomeno abbastanza comune. Nei concerti è un rito inderogabile: quando il cantante incita le marea umana dei fan in delirio a cantare assieme. È proprio in quell’istante, che rappresenta uno degli esempi più poderosi di aggregazione e comunanza sociale, che la stonatura si fa armonia: migliaia e migliaia di ugole tutt’altro che d’oro che si mettono a oscillare all’unisono e che per un qualche motivo riescono a produrre un suono, una voce armonica.

– + – = +?

Da completo profano dell’acustica, la mia intuizione è che le onde sonore “sbilanciate”, venendo in contatto reciproco, si neutralizzano a vicenda, generando di ritorno delle onde “bilanciate”. Questo principio fisico mi fa sovvenire la filosofia di Pangloss per cui i mali particolari fanno il bene universale: “i guai privati compongono il bene generale; così che più ci son guai particolari e meglio vanno le cose”. Per il sonoro,  la cosa funziona, per l’andamento del mondo, non avere riserve in merito è parecchio problematico…  sostenere che l’insieme delle sfortune e delle sofferenze, delle malvagità e delle violenze umane ammonti alla fine a un saldo positivo? Mah!

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Tutto al mondo finisce in cose da nulla, e un uomo che, per volere altrui, ma senza un’intima passione, una personale necessità, si affanna dietro al denaro, l’onore o altro, sarà sempre un pazzo.

Johann Wolfgang von Goethe – I dolori del giovane Werther

Pazzo

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Dissonanza

Dissonanza

Dissonanza

Se conservo tutt’oggi un vivido ricordo delle medie, in parte lo devo alla mia prof. di italiano…

In lei era lampante, palpabile il suo avere profondamente a cuore la il passato, specie certi atroci accadimenti della storia contemporanea. Il suo non era un interessamento circostanziato, generico, da cattedra, ma uno vivo, sentito, da campo, in prima linea; tant’è vero che, in gioventù, era impegnata, in America Latina, come attivista, o comunque sostenitrice, di movimenti rivoluzionari.

Un nome su tutti mi si è stampato nella memoria: Subcomandante Marcos: leader dell’Esercito Zapatista di Liberazione – questo però l’ho cercato su Google – . Quante volte sentivo evocare quest’uomo… e ogni volta gli occhi le brillavano, evidentemente era il suo idolo, forse al pari del Che. E dove c’è resistenza c’è l’oppressione di sanguinari dittatori e brutali regimi totalitari; infatti, un secondo riferimento parecchio ricorrente era la parola desaparecidos, i scomparsi, i volatilizzatisi nell’aria, oppositori politici, giornalisti d’inchiesta, gente scomoda e loro affiliati.

Questo spirito insofferente dei soprusi e delle barbarie mi faceva da insegnante.

Il suo fuoco non si era placato, estinto, si era semplicemente “spostato” dalla prima linea alla retrovia; dal fuoco del fare si era tramutato nel fuoco del ricordare, un fuoco che finì per marchiarmi indelebilmente.

La prof. era solita intercalare lezioni regolari e vedute di film. A quei tempi, non sapevo che esistessero pellicole di quella sorta, no, è più corretto dire che non avevo ancora compreso l’agghiacciante estensione della malvagità e perversione umane. Una cosa è leggere dello sistematico sterminio del popolo ebreo, perpetrato dalla Germania nazista, sui libri di storia, un’altra è guardare Schindler’s List… i film ai quali assistevamo erano tutti legati dallo stesso filo rosso (sangue): una playlist devastante, che mi spalancò gli occhi (figurativamente e letteralmente) e che mi scosse nel profondo. Durante ciascuna visione, nella semioscurità dell’aula, ero un fascio di orrore, disgusto e incredulità – poteva benissimo essere solo un brutto incubo – , ma era quando il film terminava, quando varcavo la soglia dell’aula video e rimettevo piede nella luce, nella realtà che conoscevo, quella di tutti i giorni, nella quale conducevo beatamente la mia ingenua e inconsapevole vita di preadolescente, che mi sentivo strano

Uno “stridore” lancinante.

 

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Ultimo desiderio

Ultimo desiderio

Ultimo desiderio

Appendice a “Pensieri sulla morte“.

Mi rendo perfettamente conto di essere un cicinin in anticipo per formulare un “corretto” ultimo desiderio, ma sento davvero di aver individuato il mio…

Mi sono chiesto: Che cosa vorrei fare o avere prima di abbandonare, una volta per tutte, questo (assurdo) mondo? cosa?

E la risposta affiorò chissà da quale oscuro recesso dell’anima.

Già, non poteva che essere questo: incontrare e parlare un’ultima volta con tutti coloro i quali hanno avuto il caso di conoscermi e interagire con me (anche brevemente ma con un discreto coinvolgimento); per scambiarci “battute” di vita.

Una rimpatriata di contingenze per risolvere la mia.

Solo che da organizzare…

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Genoma, chiedo venia…

genoma ti chiedo venia...

Genoma, chiedo venia…

Genoma o patrimonio/corredo genetico (o, in estrema sintesi, DNA): complesso dei geni di un individuo.

Riuscite per caso a imbroccare perché mai dovrei porgere delle scuse ai miei beneamati cromosomi?

Il fatto è che un tantino di pena me la fanno… voglio dire… sono giunti, dalla notte dei primi uomini, da territorio in territorio, di regione in regione, di Paese in Paese, di oceano in oceano, di emisfero in emisfero; di corpo in corpo, di generazione in generazione; per cataclismi, inondazioni, carestie, pandemie, fiere selvatiche; per guerre, massacri, saccheggi, rivoluzioni; fino a me.

A tutti gli effetti si può parlare di un esodo di portata biblica. Ma un viaggio, per quanto grandioso, è destinato a terminare, no?

Ripeto, a rifletterci sopra, uno, credo, non possa fare a meno di provare uno straccio di dispiacere, di rincrescimento… però è arrivato il capolinea. La lotta è finita. È tempo di morire.

Come si sarà da mo’ capito: non ho intenzione di trasmettere e perciò propagare, perlomeno non volontariamente, ulteriormente i geni in mia dotazione (ecco una delle singolarità che ci mette davvero in mostra, come specie: possiamo persino disertare l’istinto biologico…). Perché? Perché non mi va.

Riconosco l’eccessiva laconicità della risposta, che certamente non può contentare, ma, allo stato attuale delle cose, è ciò che di meglio posso fornire… magari un giorno di questi avrò io stesso delle idee più chiare a riguardo, da avanzare come supporto e spiegazione a ciò che per il momento non è altro che un responso di pancia.

Nel frattempo genoma, chiedo venia…

P.S. Siamo tutti geneticamente imparentati!

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Per loro sei un pazzoide fatto della mia stessa pasta! Ora hanno bisogno di te, ma quando non ne avranno, ti allontaneranno, come un lebbroso! Capisci, la loro morale, i loro valori, sono storielle da quattro soldi. Rigettate al primo segno di difficoltà. Sono tanto buoni quanto il mondo li permette di essere. Te lo mostrerò. Nel momento della verità, queste… queste persone civili, si scanneranno a vicenda. Sai, non sono un mostro. Sono solo un passo avanti agli altri.

Christopher Nolan – Il cavaliere oscuro

Non sono un mostro

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Il mondo è un palcoscenico, la vita un ingresso: entri, vedi, esci.

Democrito

Buona visione (si spera)

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Realtà o simulazione?

Realtà o simulazione

Realtà o simulazione?

Altro che il genio maligno cartesiano, che ci inganna costantemente circa le nostre esperienze, ora si comincia seriamente a prendere in considerazione la possibilità, a quanto pare non così remota, che l’intera realtà, quindi noi compresi, sia una simulazione digitale, un “The Sims” iper-realistico, anzi reale…

the sims

Ma come si fa a formulare e sostenere una tesi a prima vista così peregrina? Siamo forse un fascio di codici, di numeri, di dati?

codici, numeri e dati

Eppure il mondo è tangibile, siamo fatti di carne e ossa, di sangue; con i sensi percepiamo distintamente: immagini, suoni, odori, consistenze, il caldo e il freddo; proviamo dolore, piacere; abbiamo sentimenti, pensieri, una coscienza; siamo reali, vero? Ma forse questo è insufficiente: dopotutto, i personaggi di un videogioco, di un romanzo o di un film non si accorgono di risiedere in una dimensione fittizia, di essere loro stessi una finzione, ma “vivono” in ciò che reputano (spontaneamente) la sola e unica realtà.

Messa in questa luce, l’idea, di essere il frutto di una simulazione, qualche punto in suo favore lo guadagna, almeno per me. Poi bisogna contare anche il fatto che, di anno in anno, gli avanzamenti tecnologici ci stanno dando sempre maggiormente prova di questa eventualità. Prendete i visori oculus rift di realtà virtuale, guardate il livello di dettaglio e realismo grafico che hanno raggiunto attualmente i videogiochi, di questo passo, fra una decina di anni, chissà dove arriveremo…

Ah, scordavo, noi stessi, adesso, siamo capaci, e lo abbiamo già fatto, di creare delle simulazioni. Certamente ancora approssimative, imperfette, ma come ho detto, con il giusto tempo… Ed è proprio sul fattore tempo, che si basa la convinzione di alcuni ricercatori e scienziati sulla plausibilità di questa teoria della realtà simulata: in futuro, l’uomo sarà talmente progredito scientificamente e tecnologicamente parlando, da creare con un schiocco di dita simulazioni di interi universi. Quanto al motivo che si potrebbe celare dietro a questa presunta montatura, si va di una forma di svago (?) a uno strumento di studio. Comunque sia, la cosa interessante non è tanto accertare se è vero che ci troviamo in una simulazione, piuttosto analizzare le implicazioni che deriverebbero dalla verità di questa asserzione…

Prendiamo per buona questa visione: sapendo di non essere entità reali, ma simulate, al massimo delle copie virtuali di entità una volta effettivamente sussistenti, in che modo muturebbbe la concezione che abbiamo di noi stessi come esseri umani, cosa dire poi del corredo dei nostri valori culturali, religiosi e morali? Guarderemmo la vita (e la morte) con occhi rinati? Decideremmo di condurre la nostra esistenza differentemente?

Domande legittime e stimolanti, a cui però, personalmente, non sono in grado di dare una risposta; tuttavia, posso immaginare una o due cose.

Inizialmente ne saremmo molto colpiti e lì  per lì credo partirebbe la cantilena lamentosa del: “Non potevano prendersi la briga di programmarmi…(segue lista di desideri/aspirazioni)”; ma ben presto gli animi si placherebbero, faremmo spallucce di rassegnazione e torneremmo alla vita di sempre… ma aspetta un secondo, programmare… sicuro! Se la realtà è davvero una simulazione, allora niente ci vieta di manometterla, hackerarla, riprogrammarla a nostro uso e consumo; in tal caso, prenderemmo in mano il nostro destino, come mai in precedenza: diventeremmo Dio, un parametro modificato e un comando eseguito alla volta. Sempre ammesso e non concesso che sia per noi fattibile una tale impresa: avete mai visto un personaggio dei fumetti ribellarsi contro quanto imposto dall’autore/disegnatore, prendere il controllo del suo mondo di carta e inchiostro? Io no di certo…

Bene o male, come già accenato prima, venire a conoscenza di non essere propriamente viventi, a parte una passeggera crisi esistenziale, non penso avrà chissà quali ricadute rivoluzionarie sulle nostre vite; il dibattito filosofico s’infiammerà, la religione avrà una bella gatta da pelare, ma per noi, gente comune, nulla cambierà: il sole, anche se digitale, continuerà a sorgere e noialtri ad alzarci malvolentieri dal letto per affrontare una nuova giornata.

Mi rendo conto, però, che una simile liquidazione sommaria può risultare affatto non digeribile: se io non sono reale, le mie azioni non sono dunque reali, i miei pensieri non sono pertanto reali, i miei sentimenti non sono cioè reali. Che senso ha una vita non reale? Non so. Ma sarebbe tanto terribile vivere in un’illusione così impeccabile da non sembrare un’illusione?

Ha importanza, se l’amore dirompente e incandescente che avvertiamo nei nostri cuori, se gli attimi in cui il nostro spirito s’illumina e si purifica di felicità, se quel balsamo rappresentato dal bene che dispensiamo verso il prossimo, se tutto questo non è altro che una sequenza di 0 e 1, sintantoché ne sentiamo e ne vediamo l’immensa e grandiosa influenza positiva esercitata sulle nostre vite?

amore, felicità e bene

Lo so, sono un’irrimediabile sentimentalista, ma che ci posso fare…

 

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Elogio alla mia esistenza

elogio alla mia esistenza

Elogio alla mia esistenza

No, non siete testimoni di un subitaneo accesso di impudente e borioso narcisismo. Per carità, il mondo può fare anche a meno della mia presenza; infatti questo elogio, alla mia esistenza, va interpretato in tutt’altro modo.  É una presa di coscienza che dovrebbe investire, con la sua potenza e meraviglia, ognuno di noi.

Il fatto di esistere, di esserci, ci è così dato, così cooriginario, da velare quanto eccezionale sia autenticamente. Siamo stati gettati nel mondo dal ventre di nostra madre, ma questo poteva benissimo non verificarsi… provate solo un attimo a immaginare l’infinità di condizioni che si sono rese necessarie al nostro avvento (e quanto poteva andare storto!): un preciso spermatozoo ha fecondato l’ovulo, la “gara” poteva essere vinta da milioni di altri contendenti; si è consumato un rapporto il tale giorno alla tale ora, avrebbero potuto dedicarsi ad altre attività d’intrattenimento; i nostri genitori si sono incontrati, hanno deciso di attaccare bottone e si sono piaciuti, i loro sentieri potevano facilmente non incrociarsi mai, incrociarsi e basta, oppure provare indifferenza o addirittura ribrezzo reciproco. Tutto questo più il fatto che, in primo luogo, ovviamente, sono dovuti nascere a loro volta e questo, s’intende, ha comportato la soddisfazione di un egual numero di condizioni.

Siamo davanti a una vertiginosa catena causale che ripercorre le generazioni, i secoli, le ere e non comprende solamente l’intera storia dell’uomo, ma anche gli arbori della vita stessa e la creazione dell’universo a opera del Big Bang.

Ebbene sì, ci è voluto un “Big Bang” di fortuite coincidenze perché noi tutti potessimo esistere…

Un vero e proprio miracolo!

E se ciò non merita un doveroso, solenne e sincero elogio da parte nostra… allora, non saprei veramente cos’altro…

 

 

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La fine del mondo

La fine del mondo

Da piccolo avevo la seguente convinzione: quando fossi morto, anche il mondo avrebbe cessato di esistere insieme a me (altro che ogni uomo è un isola…); ovviamente non si trattava di un pensiero formalizzato, ma di una sensazione che ricalcava questo credo.

Già, forse a quei tempi ero un tantino egocentrico o, dal momento che identificavo il mio essere con il tutto, sarebbe corretto dire, chessò, “egopanteico“. A ogni modo ne ero completamente dissuaso. E perché non avrei dovuto? D’altronde, è talmente facile scivolare nell’illusione di essere i protagonisti indiscussi del presente in cui siamo immersi, spontaneo come una volta sedutisi su un altero trono di spade o giunti in cima al maestoso Everest.

Non siamo forse immancabilmente noi l’origine di ogni nostra percezione della realtà*?

Per Cartesio era: “Penso dunque sono”; Per me era, si potrebbe dire: “Penso dunque sei”*.

Ora non sono più di questo drastico avviso, ma in un certo senso penso ancora che il mondo non esca indenne dalla morte dell’individuo…

Ciascuno di noi è un agglomerato di esperienze, attitudini e sentimenti in sé unico e irripetibile, il quale costituisce a sua volta un’unica e irripetibile rappresentazione del mondo. E quando una “concentrazione vitale” viene a mancare: il mondo perde inevitabilmente parte della sua ricchezza, della sua interezza.

Un ragionamento troppo antropocentrico? È buffo, però, notare il fatto che, in sostanza, la mia idea originaria è rimasta pressoché inalterata: sono soltanto passato da una superbia circoscritta a una di genere universale…

 

 

* Fonte: Ergo Proxy

La fine del mondo

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Essere tutt’uno con il mondo

essere tutt'uno con il mondo

Essere tutt’uno con il mondo

Una frase degna del più fortunato dei biscotti: “Sii un tutt’uno con il mondo/la natura“.

Qualcosa che di solito sentiamo, nei film attinenti le arti marziali, uscire dalla bocca del maestro di turno, puntualmente non venire compreso dall’allievo ancora immaturo che, unicamente quando si troverà a tu per tu con il cattivo finale, riuscirà, poco prima della disfatta, a capire (a mo’ di flashback) e a mettere in pratica (con avviamento in slow motion), sconfiggendo immancabilmente l’avversario; o ancora, il sogno che ogni monaco buddista si pone di coronare nel corso della propria vita, la classica illuminazione mistica/spirituale per intenderci…

Insomma, una frase che certamente suona altisonante, d’effetto ma al tempo stesso nebulosa, priva di sostanza concreta: in che senso “diventare un tutt’uno con il mondo” e soprattutto, in che modo uno potrebbe riuscire nell’impresa?

Per quel che mi riguarda, dico che il primo passo per fondersi con il mondo è perdere la cognizione del tempo. Dobbiamo essere talmente immersi e concentrati su una cosa o un’azione da non accorgerci del normale defluire dei secondi, dei minuti e perfino delle ore. E tutti, credo, abbiamo sperimentato questa distorsione (della percezione) temporale durante momenti di svago ed euforia o nello svolgimento di attività che ci appassionano ardentemente, mi sbaglio? Ecco, può sembrare un controsenso, ma per essere un tutt’uno con il mondo bisogna in principio staccarsi da esso, soggettivarsi all’estremo, fino a svuotarsi, e solo in quello stato sarà possibile tale unione. Essere tutt’uno con il mondo significa scomparire a se stessi, scordare di esistere: è l’assenza dell’Io, o meglio, e la presenza dell’Io più vasto e completo in assoluto.

Annullare la singolarità per accogliere la totalità,

diventare un tutt'uno con la natura

questa è quindi la parola d’ordine per accedere ad istanti di incomparabile serenità.

Il metodo più famoso/tradizionale per farsi da parte è di certo la pratica della meditazione, modello ideale di focalizzazione interiore; ma se meditare non fa per voi, non disperate, ci sono altre vie per raggiungere la natura…

Se escludiamo occupazioni quali: leggere, cantare e recitare, che comportano l’utilizzo della voce (una potente componente dell’essere), ed attività come giocare agli scacchi, risolvere un cruciverba o scrivere un testo, che invece richiedono uno sforzo intellettuale (una presenza) non indifferente; potenzialmente ogni altro hobby o sport, purché motivato da un sincero amore ed accompagnato da un’impegno duraturo (si parla di anni e anni, poiché solamente a quel punto sarà per voi come una seconda natura, naturale come respirare) può condurre alla strepitosa coesione fra singolo ed intero.

Ma che fare se non nutriamo interessi particolari, oppure siamo tipi poco pazienti incapaci di sobbarcarci e rispettare impegni a lungo termine? Niente paura, per fortuna abbiamo ancora una freccia rimasta al nostro arco…  ed è proprio grazie a questa alternativa che in più di un’occasione sono riuscito incredibilmente ad assaporare attimi di indescrivibile pace e contentezza. Non saprei come spiegarlo ma nell’acqua, sia nel suo fluire incessante sotto le spoglie di un fiume sia nel suo incresparsi in cerchi concentrici sotto forma di pioggia in uno specchio (d’acqua)/pozzanghera, si cela un non so che di ipnotico, di avvolgente, di catartico; come se essa sia capace di “lavare” via la coscienza che abbiamo di noi stessi in quanto soggetti pensanti contrapposti a un mondo esterno.

increspatura della pioggia

fiume che fluisce

Provate dunque a contemplare la linfa della vita nelle circostanza citate (meglio dal vivo, e solo come ultima risorsa da video) senza, mi raccomando, forzare la visione, deve essere una cosa spontanea

Che il mondo sia con voi.

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Le persone vivono la loro vita vincolate da quello che accettano come vero. E’ così che definiscono la “realtà”. Ma in cosa consiste la “verità”?  Si tratta solo di un concetto vago… La loro “realtà” potrebbe essere un miraggio; un mondo personale ed immaginario, plasmato dalle loro convinzioni…

Masashi Kishimoto – Naruto

La realtà

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La perfezione non esiste in questo mondo. Potrebbe suonare come una frase cliché, ma è la verità. La persona media ammira la perfezione e cerca di ottenerla. Ma a quale scopo? Se qualcosa è perfetto, allora non rimane niente. Non c’è spazio per l’immaginazione, nessun aumento di conoscenza o abilità. Sai cosa comporta questo? Per noi scienziati, la perfezione porta solo disperazione. E’ nostro compito creare cose sempre più meravigliose, ma mai raggiungere la perfezione. Uno scienziato deve essere una persona che trova estasi nel soffrire di questo paradosso.

Tite Kubo – Bleach

 

Lo scienziato e la perfezione

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