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Quattrocentomila (e passa) pensieri… al secondo, ogni secondo. Un numero impensabile – specie se riferito a soggetti che a comporre quattro pensieri coerenti in croce (al giorno) sarebbe già un miracolo dei più portentosi – . Nondimeno il nostro cervello è effettivamente tale gargantuesco generatore di pensieri; in prevalenza ipotesi, proiezioni, scenari – che vengono elaborati nello sfondo, al livello del subconscio – sullo svolgersi più probabile, in base all’esperienza, degli eventi che di volta in volta, di attimo in attimo, viviamo.

Un tantino inquietante il fatto di sapere di non sapere affatto quello che ci frulla nella testa, eh? D’altra parte, sarebbe a dir poco problematico contemplare di petto la totalità di quei quattrocentomila pensieri, simultaneamente…

Insomma, volenti o nolenti, entro la camera oscura della nostra scatola cranica, prende incessantemente piede un monologo, un monologo interiore. E di quale bizzarro caleidoscopio di immagini, parole e ricordi questo vero e proprio flusso di coscienza si tratti, gente del calibro di Joyce ne ha profusamente e magistralmente reso la più vivace e impressionante testimonianza scritta, tanto che mi verrebbe da dire che c’è un “Ulisse” in ognuno di noi, un’odissea personale – in quanto di fattura e contenuto differenti per ciascuno – che avrà il suo compimento solamente con la morte.

Queste parole e queste frasi sono trascrizione del monologo che si sta dispiegando ora nella mia mente. Esse si materializzano di punto in bianco alla coscienza, pronunciate con il suona della mia voce. Pare un processo similmagico. Queste parole e queste frasi le sento mie e non mie allo stesso tempo: prendono forma nella mia testa, è vero, tuttavia non riesco davvero a scrollarmi di dosso l’inequivocabile sensazione di essere semplice veicolo passivo del loro manifestarsi… più che l’autore dei miei pensieri, mi vedo più come l’interprete/portavoce di pensieri che, in un modo o in un altro, sono rimasti intrappolati nei meandri labirintici della mia mente (da qui l’importanza di badare bene a ciò che ci viene sussurrato nelle orecchie – in particolar modo se da voci suadenti – poiché potrebbero innestarsi e attecchire fino alle radici più profonde del nostro intelletto, infestando il nostro pensiero, finendo quindi col dominare il nostro agire).

Di fatto, a riprova della natura intrinsecamente involontaria, spontanea del pensare, pensiero e consapevolezza non procedono di pari passo, la seconda giunge a posteriori, allo scemare del primo: quante volte vi è successo di venire posseduti da un pensiero per un paio di minuti buoni, realizzando per l’appunto solo dopo tale lasso di tempo di avere avuto la mente occupata da quel pensiero? Un’esperienza che per quante volte la si sperimenti non manca mai di sorprendere.

Ho detto “pensiero”, ma sarebbe più accurato dire “pensieri”. Non soltanto, come accennato all’inizio, si dà il caso che nella nostra testa si accalchino ininterrottamente una moltitudine di pensieri distinti, inoltre a ciò, per sua stessa costituzione, un pensiero non è mai a sé stante, isolato, bensì ogni pensiero è associato, aggregato ad altri pensieri a formare (quello che mi piace pensare) un grappolo che a sua volta è collegato ad un altro grappolo e così via, finendo per formare un immenso groviglio: una selva di concetti, idee, raffigurazioni, desideri…

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Pioggia

Pioggia

Pioggia

Dalla natura e dai suoi elementi proviene un tenue ma insinuante richiamo, presumibilmente l’eco residuale del nostro trascorso evolutivo, memoria del tempo in cui la proto-umanità  abitava la natura.

Che sia il verde rasserenante  di una vasta prateria in fiore, lo sfrigolio appagante di un focolare, l’immensità avvolgente del cielo o il distensivo fluire delle acque di un fiume, vi è un sentore inequivocabile. Personalmente, è nel fenomeno atmosferico della pioggia che quel sentore, quella percezione,  echeggia in me più acutamente.

In precedenza ho tirato in ballo i nostri progenitori per spiegare l’influsso esercitato dalla natura sui sensi. Spesso, nell’immaginario, ci rappresentiamo un gruppo di ominidi che accidentalmente, tramite l’intervento di un fulmine che si abbatte su un albero, a causa di condizioni ambientali favorevoli alla combustione spontanea o a scintilla scaturita dallo sfregamento di due pietre, viene a conoscenza del fuoco. Si pensa al profondo stupore che essi devono aver avvertito nel vedere quella roba luminosa, calda e pericolosa; io, invece, non posso fare a meno di domandarmi: qual è stata la reazione alla scoperta della pioggia? Esultanza? Orrore? Vedere l’acqua, che fino a quel momento era localizzata a terra, e solamente in siti ben precisi, precipitarti sulla testa in un’immane numero di “punture”, dall’alto, dal cielo, magari con furia… non mi meraviglierei se da ciò ebbe origine una superstizione riguardante un fiume celeste.

Della pioggia mi incanta tutto: il suo odore penetrante, il rumore cadenzato del suo tamburellare, ma è specialmente il suo aspetto, in apparenza filiforme, che ha presa su di me: l’incedere di centinaia di migliaia di aghi diafani che, sferzando il mondo, s’infrangono al suolo e si nebulizzano all’istante; per non parlare poi  dei cerchi concentrici che incessantemente si vengono a formare sulla superficie delle pozzanghere: una visione psichedelica che con facilità mi fa piombare in trance…

E quando non mi fa imbambolare, la pioggia è una musa ispiratrice di pensieri filosofici – la pioggia deve essere una sorta di catalizzatore – . Per un qualche motivo, la mia mente viene diretta, quasi forzatamente, verso meditazioni di carattere fondamentale quali la struttura del reale, la natura del tempo, l’esistenza umana e cosi via. Un fatto che non cessa mai di sorprendermi e affascinarmi.

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