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Una vita senza significato

Una vita senza significato

È possibile reggere il fardello di una vita sprovvista di un filo conduttore? È possibile in essa la felicità? O se non quella, è possibile comunque vivere una vita decente, accettabile, se non si ha uno scopo di fondo, se non si ha un Perché?

Partiamo per gradi. Sappiamo – o quanto meno dovremmo- che porsi la domanda su quale sia il Senso della Vita in generale equivale a porgersi la domanda sbagliata (ciò che chiamiamo “senso”, un qualcosa che ci è certamente molto caro, è un costrutto della mente umana, esiste unicamente entro le anguste e buie pareti della nostra scatola cranica, non è là fuori; la vita è semplicemente un’ostinato moto di ribellione nei confronti di un’invariabilità che ha sempre l’ultima parola), poiché la domanda giusta è: “Qual è il senso della mia vita?“. O ancora meglio: “A che cosa mi sento spontaneamente di voler dedicare la gran parte della mia vita?“. Per taluni quel qualcosa è semplicemente il loro lavoro, per talaltri un traguardo personale da raggiungere a tutti i costi, un sogno da strappare dal reame dell’eterea fantasia e tramutare in concreta realtà; per altri ancora si tratta di una causa o un’ideale per cui lottare e, se richiesto, sacrificarsi; poi ci sono quelli più “sofisticati” che prendono un proposito a loro congeniale e lo elevano al grado di imperativo-filosofia di vita a cui tendere o attenersi (come ad esempio il “become the best version of yourself”, che piace assai agli americani) – tipologia questa a me maggiormente affine -; infine abbiamo coloro che non vivono per qualcosa, ma piuttosto per qualcuno: i figli, la famiglia, gli amici, il prossimo bisognoso, l’amata/o, il criceto.

Ma se ci si ritrova in quel (esiguo?) novero di individui, in un certo qual senso, scarsamente umani, ai quali non è dato di potersi fregiare di un senso proprio, distintivo? Che cosa rimane, a quel punto? La vita? Destarsi, sopperire ai vari bisogni del corpo, assolvere alla propria mansione lavorativa per procacciarsi il sostentamento economico, togliersi qualche sfizio dello spirito, obliarsi. Ripeti (ad mortem). Più un sopravvivere che un vivere. No problem per qualsiasi altro essere vivente del regno animale e vegetale, anzi niente di più naturale, viceversa per noi homo sapiens è un briciolo più tosta la cosa… Il prezzo che dobbiamo sobbarcarci per un apparato cognitivo superlativo. “Chi sono io?”, “Qual è la mia ragione di vita?”, non udirete mai un toro rivolgersi melanconico questi interrogativi… Farà semplicemente il toro, vivrà da toro; la nostra capacità di interrogarci e interrogare il mondo può essere vista al contempo come il dono più grande e la croce più greve.

Ebbene, in che modo dovrebbe comportarsi colui il quale non ricevesse alcuna risposta alle proprie suppliche all’infuori di un vuoto e stordente eco di ritorno? Come scongiurare l’implosione? Forse fare finta di nulla, tentare di dimenticare abbandonandosi meccanicamente e passivamente alla potente e ipnotica forza d’inerzia rappresentata dalla quotidianità? Ma ciò non sarebbe uno spreco? Dipende. Tecnicamente, fintantoché uno riuscisse, con successo, a trasmettere la propria partita di cromosomi, allora porterebbe a termine la sua missione naturale e quindi il suo ciclo vitale non si qualificherebbe quale spreco. Del resto, però, non è certamente questo che intendiamo quando parliamo di una vita sprecata. Intendiamo… che cosa intendiamo esattamente? Una vita passata sotto l’egida autodistruttiva del male e del vizio? Una vita che a conti fatti è inoperosa, infruttuosa, che non apporta valore aggiunto? Una vita il cui baricentro graviti esclusivamente su sé stessa e il suo godimento? A ben vedere si direbbe che sprecare una vita corrisponda a spenderla contrariamente ai dettami della morale, e, di converso, una vita ben/pienamente vissuta è una che abbraccia la morale. Siamo tuttavia sicuri che sia il metro giusto? – senza nulla togliere a una vita animata da uno sforzo etico -. Volendo essere ancora più scettici: è possibile valutare oggettivamente il valore di una vita? Soprattutto, ci è concesso di farlo?

Prendiamo per assurdo il caso una persona che trascorra le sue giornate a pettinare con amore e diligenza i fili d’erba componenti il giardinetto di casa. Per quanto agli occhi degli altri la sua sia un’occupazione eccentrica, ridicola, inutile, per la persona in questione significa tutto; solo quando si prende cura dei suoi adorati filamenti erbosi, egli può affermare di essere ricolmo di gioia, di sentirsi vivo. Certo, a mani basse, senza riserve, potrei facilmente giudicare la sua vita uno spreco totale, ma avrei torto marcio. Mi verrebbe da dire che ognuno “spreca” la vita a modo suo e che il vero spreco consista nel non essere autenticamente sé stessi.

Ecco che a ben sperare si è aperto uno spiraglio: forse non tutti hanno la fortuna di avere qualcosa da innalzare con fierezza e fermezza al sommo altare del senso ultimo, ma ciò non implica per forza di cose una condanna a vivere una vita priva di gioie e gratificazioni, in fin dei conti è sufficiente che il nostro cuore pulsi per qualcosa… La biologia farà il resto. Oppure insistere? Dopotutto, non è affatto detto che si debba avere questo genere di risposte già in giovane età. La durata della vita verrà sempre reputata troppo breve, ciò nonostante l’aspettativa media di vita mondiale continua e continuerà, suppongo, a salire, magari sino a toccare persino i 100+ anni – e non vogliamo mettere che a furia di esplorare in lungo e in largo, seguitando, si spera, a fare costantemente nuove esperienze, ricercando con mente aperta nuovi stimoli, qualcosa, nel lasso di tempo di un secolo, la troveranno anche i più “difficili”? -. Comunque sia, se non riesci in tempo utile a inquadrare bene o male il disegno della tua esistenza, stai pur tranquillo che saranno gli altri a farlo, per praticità e/o capriccio, in tua vece (raramente prendendo in considerazioni i tuoi reali interessi-sentimenti).

C’è da evidenziare però il fatto che attribuire un significato alla propria vita non è sicuramente roba che si presti tanto bene a essere archiviata in via definitiva e per di più in una singola seduta esistenziale… La realtà muta ogni istante che trascorre, e noi con essa – tanto per dare un’idea dell’incessante cambiamento in atto, da oggi a 5 anni, il mio corpo sarà interamente composto da una schiera di atomi nuova di conio -. Difficilmente, ci si porterà appresso lo stesso e identico Senso fino alla tomba, è molto più probabile che nel corso della vita si finisca col identificarsi con diversi (e magari diametralmente opposti) Perché.

Certo però che noi post-moderni ultra secolarizzati ci ritroviamo più che mai svantaggiati sul fronte “senso della vita” rispetto ai nostri vecchi predecessori, avendo ormai la nostra società enormemente ridimensionato la valenza della figura “Dio” come sacro faro per la vita dell’individuo e indiscusso collante della vita collettiva. D-I-O. Un tempo era sufficiente ripetersi intimamente queste tre lettere per placare l’animo inquieto, per colmare di un infinito senso e significato la propria vita (e la propria morte)… Ora, all’altezza o meno, spetta a noi.

Insomma, è possibile un qualcosa che anche solo vagamente rassomigli a un lieto fine per coloro i quali macinano chilometro su chilometro percorrendo la maestosa strada della Vita, nonostante il poco invidiabile circostanza di non essere alimentati da nessun carburante in particolare? Bè, che altro dire salvo che tutto dipenderà dalla costituzione umana di ciascuno? Ci saranno quelli che privi dell’ausilio di una stella guida come punto da riferimento, in preda a un panico incontrollabile, finiranno per precipitare nell’abisso più nichilista; altri, non senza affanni, adatteranno gradualmente i loro occhi a fendere la tenebra di una notte senza stelle, scoprendo, forse, un mondo tutto sommato pregevole.

Ma terminiamo in una nota di carattere pratico. Tempo fa lessi da qualche parte che per scongiurare di entrare in piena modalità crisi esistenziale basta adottare la seguente (banale) ricetta: seguire una dieta sana, fare regolarmente esercizio fisico, dormire come si deve, avere una vita sociale attiva. Per prevenire i mali dell’anima, curare i bisogni del corpo, sembrerebbe.

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Un fiume non viene mai sceso due volte dallo stesso Eraclito

 πάντα ῥεῖ

Tutto scorre, tutto fluisce, tutto muta. Ciò lo appuriamo facilmente a proposito del mondo esterno e degli infiniti oggetti che lo popolano; più difficoltoso è ,invece, rammentare che lo stesso principio vale anche per noi. Siamo naturalmente preda di un’illusione/narrazione che ci fa percepire di essere un insieme coerente, lineare, finito. Ma questa sensazione istintuale è, appunto, una mera illusione operata dalla nostra mente, un artificio cognitivo necessario al vivere: l’identità, l’Io. Quello che definiamo “Io”, lungi dall’essere quel tutt’uno compiuto e ordinato, è più correttamente rappresentabile come quell’ammasso intricato di atomi, cellule, carne, memorie, idee, paure, aneliti e quanto altro compone una persona in un dato momento , ed esso non esiste in una dimensione altra, trascendentale, metafisica, non sottoposta alla giurisdizione del moto, imperitura, no, fa parte del mondo, del tutto e, quindi, in perpetuo divenire: ciò che ieri ero oggi non sono, ciò che oggi sono domani non sarò: Io non sono mai, divengo sempre Io.

Comunque, l’oggetto di reale interesse, almeno dal mio punto di vista, non è tanto accorgersi della natura intrinsecamente elusiva, ambigua dell’Io – che alla stregua di un fantasma possiamo vedere ma non toccare – , bensì l’atto di raffrontare qualitativamente i diversi Io. Non mi riferisco ovviamente all’evoluzione fisica o a quella dei gusti in materia di musica, cibi o che so io, ma al mutamento, in taluni casi anche sostanziale, del “contenuto” cranico. Rispetto a dieci o solamente cinque anni fa, adesso ne so di più; mi sono imbattuto in nuovi concetti, mi sono misurato con nuove idee. In cuor mio posso dire tranquillamente di avere acquisito una maggiore conoscenza e comprensione di me stesso e del mondo. Ciò è di sicuro una cosa di cui rallegrarsi e magari andarne pure orgogliosi, ma non è dal semplice fatto di aver arricchito il mio patrimonio intellettuale che ricavo un senso di piacevole stupore quando il mio pensiero si sofferma sulle differenze mentali che intercorrono tra l’Io attuale e quello trascorso.

Il bello di apprendere non sta nel brivido di collezionare via via un numero crescente di saperi per sentirsi invulnerabili nei confronti di tutto e di tutti, per arroccarsi nella torre di avorio più alta e inespugnabile che ci sia, dove potersi crogiolare indisturbato nella più assoluta compiacenza di sé; il bello di apprendere qualcosa di nuovo sta nella magnifica possibilità di trasmutare quello che già sapevi, o credevi di sapere, di vedere la realtà sotto una luce nuova. Sicché, nel corso del tempo, sulla scia di nuove impressioni, non vi è praticamente atomo di pensiero che abbia ritenuto il suo carattere originario, di partenza, di concepimento: revisioni, rinnovamenti, rigetti: un panorama “ideale” soggetto al costante imperversare dall’agente del divenire. C’è da dire, però, che, in mezzo agli incalcolabili cambiamenti a cui andiamo in contro, non è sempre agevole ricordare chiaramente posizioni e vedute una volta sostenute, specie se a distanza di anni. Ed è in questo frangente che trovo di immenso giovamento (e diletto) andarmi a rivedere film, serie tv, anime, a rileggere libri e, nel mio caso specifico, i miei articoli – un’esperienza davvero esilarante – . A ogni tuffo nel passato, si sa, la nostalgia colpisce duro, te lo aspetti ma non puoi opporre resistenza, ti prende sempre alla sprovvista; ma, per me, non è la sola a sortire un effetto considerevole sul mio stato d’animo: la constatazione, la constatazione di non pensarla più alla stessa maniera di un tempo, di non essere più la stessa persona di un tempo, di essere mutato (e che questo processo continuerà fintantoché vivrò).

Esiste forse qualcosa di più esaltante?

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Vu-jàdé

Vu-jàdé

Vu-jàdé

Vu-jà…che!? Ha tutta la sonorità di un’oscura formula magica, di un maleficio sibilato da sinistre e ipnotiche labbra di sciamano/stregone durante un rito esoterico, vero? Trattasi invece della parola che si ottiene ribaltando l’inflazionata espressione déjà-vu, ma, fidatevi, non per questo essa è meno irreale siccome, come è facile intuire, il capovolgimento di reale interesse non sta in quello banale, delle lettere, bensì in quello del senso.

Il déjà-vu è roba già vista… È quel presentimento che fa: “Aspetta un momento… io questo l’ho già visto, sentito, vissuto!“. L’esatta replica di una scena pregressa, ma che non riusciamo a collocare temporalmente; una fugace intersezione tra due piani che dovrebbero essere paralleli: sogno e realtà. Un’esperienza dai contorni paranormali, un’anomalia, che ci prende di perfetto contropiede e che, come farebbe un taser, ci immobilizza per una manciata di secondi, nei quali, sconcertati, cerchiamo di ristabilire il flusso della normalità.

Déjà-vu

In che cosa consiste dunque il mai sentito vu-jàdé – per la scoperta si ringrazia Rick Dufer – ? Esso a due possibili manifestazioni, una estraniante, patologica, e l’altra vivificante, salubre.

Nella prima tipologia di vu-jàdé (di “nauseante” memoria) siamo sperduti in terra natia. Ci troviamo davanti a qualcosa che i nostri occhi dovrebbero riconoscere anche da serrati, ma è come  se quel qualcosa fosse mutato irrimediabilmente: ora è altro, alieno.

Nausea

Un’esperienza impressionante.

Pensate a un navigato lupo dei sette mari che fin dal rango di umile mozzo sia avvezzo, nel cuore tenebroso della notte, a scrutare il terso cielo stellato, privilegio di chi come lui decide di consacrarsi alla distesa blu. Egli conosce a menadito il nome di ciascun puntino luminoso e relative costellazioni, la sua prediletta? L’orsa polare; fedele guida di mille traversate. Immaginate che, in una nottata che di fuori dell’ordinario nulla lascia presagire, il nostro uomo, nell’atto consuetudinario di levare lo sguardo alla volta celeste, non riconosca più la sua compagna: ai suoi occhi ora emana una luce differente, anzi, non è più luce quella che emana…

Stella polare

La seconda varietà di vu-jàdé si situa decisamente sul lato spensierato della bilancia. Esso si verifica quando riusciamo a squarciare lo spesso velo dell’iterazione cognitiva. roba non da poco, assolutamente.

Iterazione cognitiva

Il cervello è alquanto incline a mummificarsi alla prime impressioni che riceve, una volta che “vede” qualcosa in un modo, quella particolare prospettiva taglierà fuori il resto e avrà il monopolio interpretativo sugli incontri che seguiranno.

Quanto non conosciamo…e quello che presumiamo di conoscere!

Occasionalmente, però, ci può capitare di venire folgorati di una rivelazione che ci consente di guardare al mondo con lenti nuove. La matita che sto impugnando – proprio così, scrivo su carta – , quante volte l’avrò veduta, utilizzata? A occhio e croce un numero sulle migliaia. E cos’è stata per me? Come per tutti, credo, un bastoncino di legno con un’estremità appuntita a base colorante, che permette di tracciare linee; ma, a rifletterci, può essere molto di più: le linee che scaturiscono da questo semplice strumento, possono dischiudere infiniti universi di significato, cambiare il corso di un’esistenza, aiutarci a esplorare ciò che giace dentro ognuno di noi, a tirarlo fuori.

matita

E se qualcosa di ordinario come una matita può contenere tale supplementare abbondanza, provate a pensare a quanto di inatteso e sorprendente potenzialmente ci circonda…

guardare al mondo con lenti nuove

Auspico, perciò, a chiunque, tanti, tanti vu-jàdé (naturalmente del secondo tipo)!

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