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In braccio a Morfeo passiamo 227.760 ore, ovvero 26 anni, ovverosia un terzo della nostra esistenza – ennesimo promemoria dalla sua scioccante brevità -.

Incoscienti. Inermi. Inerti. Una piccola morte, una perpetua prova generale per preparare a dovere lo spirito e le membra all’atto finale.

Gli occhi coperti – chiusi, non lo sono mai – ma febbrili. Destra, sinistra, su, giù: tracciano un reticolo immaginario di convulsa geometria. Come spaventati per via dell’oscurità sopraggiunta, avvolgente, totale, disperati sono in cerca di luce. Vogliono vedere. Qualcosa, qualsiasi cosa – forse sogniamo per vedere appunto qualche cosa, il tanto per non “dimenticarci” come si vede -.

Ci sono ancora. Pensieri… Oggi ho… Domani avrò… Un ricordo (apparentemente) stocastico del passato… SHHH! Non basta. Devo “chiudere” una seconda volta gli occhi. No, si tratta più di un “movimento” verso il basso, uno sprofondare. Rendere pesante la coscienza, tramutarla in un macigno in caduta libera e.. PUFF!

Impercettibile, un colpo fantasma. Dall’altra parte, in una transizione perfetta, fluida, senza smagliature, senza singhiozzi. Da qualche altra parte (del mio cervello?). Un’altra vita, un’altra esistenza, un altro piano del reale. Una dimensione vivida ma al tempo stesso eterea, instabile, al collasso imminente. Ambientazione e figuranti in un repentino flusso, rigurgito di ignota familiarità, un carosello di spezzoni alla rinfusa. Tutto è conosciuto. Tutto è normale. Nessun dubbio, nessuna sorpresa per quanto possa verificarsi, per come e quanto le leggi fisiche e logiche possano venire ripetutamente violate con nonchalance.

In questo mondo siamo al centro. Ogni cosa sembra gravitare verso il nostro sguardo. Ogni evento è intessuto di noi e su di noi. Non caso, in questa realtà vale il pensiero magico: la volontà sola è bastevole a piegare, blandire, controllare la natura al nostro benestare. In quei secondi/minuti – il lasso effettivo di un sogno – siamo degli dei (ma un dio può morire? O meglio, la sua controparte in carne ed ossa? Voglio dire, si può morire in sogno? O meglio, si può morire di un sogno?).

Il tempo del sogno scorre differentemente. Esso non è, come quello fisico, composto di istanti unitari giustapposti, ma di picchi e valli d’intensità slegati. Il tempo del sogno si espande e si contrae alla maniera di un cuore vivo, pulsante.

BOOM! La bolla scoppia. Ritornato. La coscienza al suo posto (originario?). Stordito, disorientato, traumatizzato dal viaggio, dalla cesura inopinata: un mezzo secondo di angoscia pura, poi, finalmente, il riassestamento. Sono qui.

Il ricordo, frammentario, si dissolverà nel giro di poche ore – è nel nostro interesse dimenticare? – : 26 anni di oblio.

26 anni di oblio

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Dopo un anno, e qualcosa di più, di lavoro a contatto con il pubblico, una cosa posso affermare fuor di qualunque ragionevole dubbio: nella gente non vi è traccia alcuna di quel lume della ragione tanto caro agli illuministi.

Giorno dopo giorno, interazione dopo interazione, l’uomo della strada non ha fatto altro che dare schiacciante prova del profondo sonno in cui versa il suo intelletto. Si badi bene, chi scrive non si reputa di certo dotato di chissà quale acuto e penetrante intelletto, per carità, ma perlomeno ritengo di potermi dichiarare, senza arroganza, una testa pensante… Al contrario, nell’individuo medio, per dirla aristotelicamente, pare in atto la sola anima sensitiva: l’appetito e l’istinto la fanno chiaramente da padroni; egli è mosso da un automatismo animale e in quanto tale è avverso, idiosincratico nei confronti del discorso razionale: non ne fa uso né è disposto a prestarle ascolto, trincerato com’è nel suo gretto fortino edificato su cumuli e cumuli di stereotipi, fesserie e ragionamenti sconclusionati.

Sicuro, è irrealistico aspettarsi che la maggioranza della popolazione eccella nella pratica della riflessione o che possegga uno spiccato spirito critico, ma certamente non sarà così ignorante e stolta come viene per tradizione dipinta da una retorica élite fuori da questo mondo… – pensavo. Mi sbagliavo (in larga parte).

Confesso che di quando in quando faccio ancora fatica a raccapezzarmi all’idea di un’umanità di siffatta risma e mi domando, allibito ogni volta: come diavolo fa il mondo a “girare”? I  miracoli esistono. Il solo fatto che io abbia condiviso queste righe, non su di un semplice pezzo di carta, ma su di una piattaforma di computer intercontinentalmente connessa, denominata internet – con tutto ciò che questo presuppone in termini di conoscenze fisiche e tecnologiche pregresse – , è già di per sé qualcosa che dovrebbe destare enorme stupore…

Per finire, non saprei stabilire se lo stato delle cose sia imputabile all’adozione di un sistema educativo disastroso, e quindi il prodotto di un certo tipo di società/cultura, o se invece si tratti di una realtà connaturata alla condizione umana, e quindi il naturale stato delle cose. Probabilmente, entrambe le cose; o meglio, l’ultima che viene amplificato in modo esponenziale dalla prima. Boh.  Mi auguro solamente che l’inevitabile e prolungata esposizione “zombificante” che mi attende non incida troppo pesantemente sulle mie facoltà mentali, ottundendole oltre l’irreparabile…

 

Buio

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Click!

Click!

Click!

Mastri cristallizzatori dal 1826.

L’avvento del cattura-anime, o della fotografia.

Un anno memorabile.

Scattare un fotografia è oggi un gesto assai ordinario.

Eppure.

Asportare chirurgicamente un brandello dalle amorfe e turbolente membra del divenire.

Isolarlo. Negare il suo divenire. Scamparlo, provvisoriamente, all’oblio.

Ciò che vedi non è più (e forse mai più sarà).

Sfociato nel fiume di Eraclito.

Divenuto.

Sfociato nel fiume Acheronte.

Disfatto.

Una foto non si limita ad abbrancare un’immagine.

Sembianze. Cose. Vedute.

Maggiormente viene inglobato.

Le figure sono intrise di una linfa.

Negli occhi il guizzo. Dalla foggia l’alone. Della natura l’esuberanza.

Click!

Un gesto di ordinario prodigio.

 

 

 

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Mi sono fatto attendere, ma alla fine una risposta l’ho trovata. Tempo fa, ormai più di un anno fa, scrissi un articolo nel quale proclamavo, con fare faceto, la mia intenzione di venir meno a ciò che tranquillamente possiamo definire la vocazione biologica ultima, quella che interessa e accomuna tutte le forme di vita: assicurare il proseguimento della propria specie veicolandone il patrimonio genetico; moltiplicarsi, procreare insomma. In quell’istanza, però, la mia rimase un’asserzione sorretta da nient’altro che un’intuizione uterina. Ma, come qualvolta inspiegabilmente e ironicamente accade, quando uno si affanna a più non posso nel trovare la soluzione a un problema e non ci riesce, si distacca completamente dalla ricerca e nel mentre di tutt’altra la soluzione al precedente problema si fa come avanti di sua spontanea volontà, qualche giorno addietro, quando oramai nei miei pensieri della questione “no figli” non vi era assolutamente la benché minima traccia (o almeno è questo ciò che mi è consentito di affermare), ecco che un perché si è rivelato, folgorante, inatteso. Sensato? non saprei.

Noi esseri umani siamo davvero strani. Un costante e adeguato nutrimento, un riparo atto a proteggere dai predatori e a schermare dalle intemperie, la disponibilità di uno o più partner sessuali, l’appartenenza a un gruppo, tutto ciò è quanto basta per soddisfare l’esistenza delle altre specie, ma non quella dell’uomo (di norma). Noi necessitiamo, esigiamo il soddisfacimento, la realizzazione di un bisogno “superiore”: trovare, meglio ancora, conferire un qualche significato, un qualche valore, un qualche scopo al transitorio esserci che è la vita di ciascuno; pena l’essere avvinghiati perennemente da un sentimento di vuotezza e futilità: l’essere un guscio che cammina…

“Diventa te stesso!”, tuonava Nietzsche. Un’impresa nel più vero senso della parola. E a me pare che molti si sottraggano dalla gravosa chiamata ricorrendo ad una precisa scappatoia, ovvero quella di incuneare saldamente la propria vita al ruolo sacro di genitore. Mi correggo, piuttosto che di una fuga, sarebbe più giusto dire che si tratta di scegliere la maniera più “facile”, di default, per soddisfare quel nostro bisogno metafisico di senso e finalità, poiché totalmente in linea con ciò che la natura da noi richiede: figliare.

Diventare padre/madre ti cambia radicalmente la vita, si dice, e a buona ragione.

È inevitabile. Il nascituro è destinato, con la sua venuta, a detronizzare l’Io del genitore dal suo centro focale, assestando un nuovo gioco di equilibri chiaramente a sfavore, a discapito della soggettività del secondo. In altre parole: essere genitori vuol dire vivere per i figli; mettere la loro esistenza in capo alla propria. E in ciò nulla di male, ci mancherebbe… ogni manifestazione di amore è certamente la bene accetta, vitale, in un mondo, quello umano, che altrimenti sarebbe un luogo incredibilmente arido e squallido.

Avete ora inteso il perché dietro alla mia importante decisione di non volere dei figli?

Desidero che il motivo conduttore della mia vita (attualmente dai contorni sfumati) sia localizzato internamente, in me, a partire da me.

Puro esempio di egoismo? Non credo. Ma se essere egoisti significa voler vivere per stessi anziché per gli altri (il che non equivale a dire di preoccuparsi e occuparsi sempre ed esclusivamente di sé), allora sono felice di esserlo!

 

 

Il perché non voglio figli

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Prima donne e bambini

Prima donne e bambini

Prima donne e bambini

Dare la precedenza alle donne e ai bambini nelle situazioni di emergenza, pericolo, durante le evacuazioni e i salvataggi; una nota linea di condotta di origine marinara – anche se, facendo qualche ricerca su internet, sembra alquanto trascurata nei naufragi – . Un gesto nobile, se frutto dalla propria volontà, in caso contrario, nient’altro che un sacrificio imposto; una discriminazione di genere (che indirettamente richiama  a sé quella femminile). Una discriminazione che si è ben impressa nel nostro sostrato psichico, questo grazie a una retorica martellante del “uomo forte/duro e della donna sesso debole/gentil sesso” che si perpetua da Dio solo sa quanto, sotto le più svariate forme espressive e convenzioni sociali.

Tutto comincia già alla nascita con l’associazione del colore blu/azzurro ai maschietti e del colore rosa alle femminucce. Lungi dall’essere mera attribuzione di sesso, sarà “bandiera” dei tanti meccanismi sociali e culturali che portano a estremizzare le differenze biologiche che intercorrono fra l’ uomo e la donna, imponendo a entrambi  prerogative specifiche. Forza, orgoglio e razionalità, da una parte; delicatezza, passione e modestia, dall’altra: l’impostazione di una netta opposizione, manichea, tra due universi umani.

Detto ciò, all’origine di atteggiamenti del tipo “prima le donne e i bambini” è palese l’influsso di narrazioni che vedono nella donna un fiore tanto incantevole quanto cagionevole (che quindi necessità di premura e protezione, di salvezza) – per quanto concerne la priorità concessa ai bambini, più che a un prodotto culturale siamo, credo, di fronte a uno evolutivo – : il topos della damigella in pericolo/fanciulla da salvare: protagonista femminile impotente la cui felicità e il cui benessere futuri sono integralmente derivanti e subordinati dall’agire di un impavido ed eroico protagonista maschile. Un motivo di vecchia data, che dovrebbe risalire almeno alla Grecia antica (prendendo per buono quanto riportato da Wikipedia); emblematica è l’ambientazione medioevale con valorosi cavalieri che soccorrono innocenti principesse dalle grinfie di draghi malefici. Di vecchia data ma tuttora piuttosto adoperato, come si può facilmente constatare…

L’introiettamento di questo stereotipo, che nel nostro tempo avviene preponderatamente attraverso la fruizione di film e telefilm, è pressoché una certezza matematica; ed esso si fa agevolmente strada, si insidia subdolamente dal mondo della finzione a quello della realtà. Ecco dunque la donna come soggetto passivo, al massimo reattivo, fragile e pertanto bisognoso della massima tutela e del massimo accudimento da parte dell’uomo, soggetto attivo, creativo, forte.

Donna = vittima della situazioneUomo = eroe della situazione

Immersi nella narrazione, inconsciamente, l’uno è indotto ad aspettarsi dall’altro quanto previsto dal “ruolo” che ricopre, ad adeguarsi al proprio, di ruolo, e a comportarsi di conseguenza: un gioco delle parti. Un gioco che però può divenire malsano, tossico. In generale, da un lato si corre il pericolo di limitare le potenzialità della donna, degradando l’orizzonte delle sue possibilità percepite e reali, rendendola  effettivamente debole; dall’altro, di portare al sovraccarico mentale e/o emotivo l’uomo, sottoponendolo alla costante pressione di mirare alla figura mitica del “vero uomo”.

A non concedere adito alla vera natura dell’individuo non può venirne fuori niente di buono, ma solo miseria e infelicità.

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Pioggia

Pioggia

Pioggia

Dalla natura e dai suoi elementi proviene un tenue ma insinuante richiamo, presumibilmente l’eco residuale del nostro trascorso evolutivo, memoria del tempo in cui la proto-umanità  abitava la natura.

Che sia il verde rasserenante  di una vasta prateria in fiore, lo sfrigolio appagante di un focolare, l’immensità avvolgente del cielo o il distensivo fluire delle acque di un fiume, vi è un sentore inequivocabile. Personalmente, è nel fenomeno atmosferico della pioggia che quel sentore, quella percezione,  echeggia in me più acutamente.

In precedenza ho tirato in ballo i nostri progenitori per spiegare l’influsso esercitato dalla natura sui sensi. Spesso, nell’immaginario, ci rappresentiamo un gruppo di ominidi che accidentalmente, tramite l’intervento di un fulmine che si abbatte su un albero, a causa di condizioni ambientali favorevoli alla combustione spontanea o a scintilla scaturita dallo sfregamento di due pietre, viene a conoscenza del fuoco. Si pensa al profondo stupore che essi devono aver avvertito nel vedere quella roba luminosa, calda e pericolosa; io, invece, non posso fare a meno di domandarmi: qual è stata la reazione alla scoperta della pioggia? Esultanza? Orrore? Vedere l’acqua, che fino a quel momento era localizzata a terra, e solamente in siti ben precisi, precipitarti sulla testa in un’immane numero di “punture”, dall’alto, dal cielo, magari con furia… non mi meraviglierei se da ciò ebbe origine una superstizione riguardante un fiume celeste.

Della pioggia mi incanta tutto: il suo odore penetrante, il rumore cadenzato del suo tamburellare, ma è specialmente il suo aspetto, in apparenza filiforme, che ha presa su di me: l’incedere di centinaia di migliaia di aghi diafani che, sferzando il mondo, s’infrangono al suolo e si nebulizzano all’istante; per non parlare poi  dei cerchi concentrici che incessantemente si vengono a formare sulla superficie delle pozzanghere: una visione psichedelica che con facilità mi fa piombare in trance…

E quando non mi fa imbambolare, la pioggia è una musa ispiratrice di pensieri filosofici – la pioggia deve essere una sorta di catalizzatore – . Per un qualche motivo, la mia mente viene diretta, quasi forzatamente, verso meditazioni di carattere fondamentale quali la struttura del reale, la natura del tempo, l’esistenza umana e cosi via. Un fatto che non cessa mai di sorprendermi e affascinarmi.

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Naturale = Buono

Naturale = Buono

Naturale = Buono

Un’equivalenza che è un equivoco, un malinteso diffuso e radicato che tende a screditare l’operato di alcuni campi della scienza e intralciarne il vitale progresso. È come se il pensiero comune adottasse nei confronti della natura un culto del divino rimasuglio dei tempi antichi: una madre buona e amorevole.

È naturale, quindi è buono; è buono, deve essere naturale.

Un dogma bello e buono.

Naturale è semplicemente qualcosa di non creato/indotto artificialmente. Non vi sono, né sono necessarie e opportune connotazioni aggiuntive; men che meno una considerazione imbevuta fino all’orlo di aprioristica validità e bontà etica… 

La natura è amorale. No, anche questo è cadere nell’abbaglio di personificare la natura…

Dobbiamo ricordarci che la natura non è un’entità, ma un’astrazione, una categoria che sta per l’insieme delle leggi, delle forze e dei processi che stanno alla base dell’universo, e dunque di ogni essere vivente e cosa inanimata, e che lo plasmano incessabilmente dalla notte dei tempi.

La natura è un lavoro in corso che semina frutti di qualunque varietà: dolci, aspri e amari; non è una granitica Bibbia che dispensa amore e giustizia. 

Ne deriva che, andare contro natura – quant’è demonizzata questa frase? -, deviare dal naturale, manipolare, modificare: non costituiscono di per sé, intrinsecamente, un male!

Ciò può essere complicato? delicato? pericoloso? Sì, sì e ancora sì. Solo un folle potrebbe negarlo. Dobbiamo essere estremamente cauti e coscienziosi, su questo non ci piove, ma ne vale la pena. Dico di più: per quanto è in nostro potere, per quello che concerne il miglioramento delle condizioni di vita umane, abbiamo il dovere morale di supplire alle mancanze e magagne della natura.

Attenzione però, qui non si tratta di sminuire la natura e mitizzare l’attività dell’uomo – la qual cosa sarebbe unicamente ridicola – , ma di rigettare con decisione una concezione manichea e dualista del reale, che vorrebbe contrapporre e ridurre ottusamente e dannosamente la physis, benigna, da un lato, e la téchne, maligna, dall’altro…

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Homo Definitus

Homo Definitus

Homo Definitus

Una mappa.

Una mappa che sia sempre più completa, coerente e ordinata, perché la manchevolezza, l’ambiguità e il caos fanno paura.

Quello che facciamo è “semplice”: convertiamo territorio sconosciuto (fenomeni, fatti, dati) in territorio posseduto (concetti, teorie, tecnologia). Fetta dopo fetta, con le unghie e con i denti, tra mille avversità, espandiamo il nostro impero di senso e logicità.

L’imperativo è imbrigliare la realtà, arginare la sua impetuosa e travolgente complessità per canalizzarla in reti distinte e gestibili di sapere: comprimere e catalogare, comprimere e catalogare. Ed evidentemente questa ambiziosa e laboriosa opera di mappatura sarebbe preclusa senza l’ausilio di un dispositivo di codificazione all’altezza: il linguaggio (umano): deposito e veicolo di significato.

Ma cosa ci muove all’esplorazione e alla conquista? L’istinto di conservazione, anzitutto.

Come sosteneva giustamente Darwin, sopravvivere vuol dire adattarsi all’ambiente di appartenenza e ciò, l’adattamento, presuppone, per il suo verificarsi, inevitabilmente un determinato ordine di comprensione (anche solo intuitivo, percettivo, come da parte di animali e piante) delle dinamiche e dei meccanismi interni all’ambiente di riferimento.

Ma cavarcela nella savana è stato solo il primo passo; le nostre definizioni ci hanno condotto lontano, molto lontano: ci siamo innalzati dallo stato di natura e dall’essenziale sopravvivere siamo passati allo sofisticato governare.

Guardatevi attorno.

Guardate fino a che punto siamo riusciti – nel bene e nel male – a organizzare e modellare il reale al nostro volere…

A parte questi incentivi, che potremmo definire pragmatici, utilitaristici, dietro alla nostra spinta definitoria alla febbrile ricerca di conoscenza e ordine, mi pare di scorgere una motivazione – forse inconscia –  “umanistica“, esistenzialista: chi/che cosa siamo?

Cogliere noi stessi, per esclusione, completando il resto del puzzle.

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Se mi chiedessero quale fosse l’aspetto più eclatante della natura e condizione umana, risponderei che nessuna persona è forte abbastanza da sostenere il senso della sua vita senza l’aiuto di qualcosa stante al di fuori di lui.

Ernest Becker

Nessuno

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Un pomeriggio la natura

Un pomeriggio la natura

Segue resoconto del nubifragio-grandinata che l’altro ieri ha riversato, dalle mie parti, tutta la sua poderosa impetuosità, e ciò che ne seguì in me.

Mercoledì pomeriggio.

Cielo plumbeo, imbottito di nuvoloni.

Sgombero la mente, mi concentro, inizio il mio quotidiano allenamento.

La natura in concerto si scatena: pioggia frustante, vento sradicante, grandine tartassante.

Un fragore inaudito.

L’animo non riesce a sottrarsi al rapimento.

Interrompo, mi affaccio alla finestra.

Un denso pulviscolo di gocce ammanta l’ambiente circostante.

Surreale.

Sorrido.

Torno al mio meschino esercizio fisico.

In quell’istanza, non ho potuto, per quanto ridicolo, fare a meno di contrapporre l’incalcolabile forza sprigionata dagli elementi alla mia di insignificante uomo. Eh niente, a momenti mi scoppiava una risa… Ho pensato: “Potrei dedicare ogni singolo secondo della mia vita, di fatto quante vite desidero, ad allenarmi strenuamente al limite delle mie capacità fisiche, ma non riuscirei neanche a generare lontanissimamente un trilionesimo della potenza che in un qualsiasi istante si è scaricata davanti a me quel mercoledì pomeriggio“.

Ma sbagliavo, come sbagliamo noi tutti quando vogliamo paragonarci alla forze naturali in termini di forza bruta; non ha senso farlo, è ovvio che in quel versante non ci sia storia. Se c’è qualcosa, a nostra disposizione, che è in grado di riequilibrare la partita, che ha qualche possibilità di rivaleggiare con le energie della natura è la mente con le sue infinite idee!

Un pomeriggio la natura

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Noi e i piccioni

Noi e i piccioni

Noi e i piccioni

Esci per strada. Sono ovunque. Appollaiati sui cornicioni dei palazzi a riposarsi e a prendere beatamente il sole; nelle piazze, adorano quelle dei mercati, gremite di gente, a beccarsi e spintonarsi a vicenda per accaparrarsi le nostre concessioni di cibo, ma anche per scovare e corteggiare un potenziale partner amoroso, con un tubare insistente; qua e là asfaltati da ruote motrici.

In sostanza, sono sempre sotto il nostro naso. Eppure, solo a me, guardandoli, hanno suscitato un curioso dubbio nei nostri confronti? Mi spiego. Magari è un pensiero stupido e insensato, da uno come me non sarebbe poi tanto anomalo, ma… perché i piccioni si assomigliano tutti e noi invece siamo così  fisionomicamente “sfumati”? Naturalmente, lo stesso quesito si applica anche al resto del mondo sia animale sia vegetale, il piccione è stato da me selezionato per comodità e, diciamo, alta disponibilità esemplificativa; inoltre, con “noi” considero specialmente individui di una medesima nazionalità di appartenenza.

Se prendiamo due piccioni qualsiasi, in perfetta e neutra condizione fisica (no ala malmessa o piume fradice), e li accostiamo, difficilmente li potremmo distinguere l’uno dall’altro. Certo,  potranno essere di taglia differente, avere un piumaggio di colore differente, ciò nonostante saranno privi di tratti somatici univocamente eloquenti, “personali”, in grado di separarli come singoli pennuti. Niente a che vedere con le nostre “50 e più sfumature di viso”: ovale, quadrato, triangolare, allungato, rotondo, a diamante, a cuore; passando al contenuto, abbiamo: nasi a patata, aquilini, all’insù; occhi infossati, incavati, sporgenti, ravvicinati, distanziati, cadenti; labbra triangolari, segnate, chiuse, rettangolari, fantasma, ad arco di cupido; orecchie a sventola (non si esauriscono sicuramente a queste, ma mi ero stufato di cercare)…

Una notevole eterogeneità. Ma perché noi soltanto?

Due ipotesi mi sono balenate in testa. È possibile che i nostri occhi non siano abbastanza “bravi” da cogliere le disuguaglianze fisionomiche in altre specie viventi. Anche il resto delle forme di vita è in verità molto assortito, e solo che non possiamo facilmente captarlo; probabilmente a un piccione appariamo tutti pressoché identici. Infine, forse in concausa, credo che il nostro innarestabile spirito globalizzatore, combinato al nostro proverbiale ingegno, abbia giocato un ruolo capitale nel formare la sfaccettature esistenti: un’ammucchiata così variopinta che oltre a noi nessuno!

 

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Essere tutt’uno con il mondo

essere tutt'uno con il mondo

Essere tutt’uno con il mondo

Una frase degna del più fortunato dei biscotti: “Sii un tutt’uno con il mondo/la natura“.

Qualcosa che di solito sentiamo, nei film attinenti le arti marziali, uscire dalla bocca del maestro di turno, puntualmente non venire compreso dall’allievo ancora immaturo che, unicamente quando si troverà a tu per tu con il cattivo finale, riuscirà, poco prima della disfatta, a capire (a mo’ di flashback) e a mettere in pratica (con avviamento in slow motion), sconfiggendo immancabilmente l’avversario; o ancora, il sogno che ogni monaco buddista si pone di coronare nel corso della propria vita, la classica illuminazione mistica/spirituale per intenderci…

Insomma, una frase che certamente suona altisonante, d’effetto ma al tempo stesso nebulosa, priva di sostanza concreta: in che senso “diventare un tutt’uno con il mondo” e soprattutto, in che modo uno potrebbe riuscire nell’impresa?

Per quel che mi riguarda, dico che il primo passo per fondersi con il mondo è perdere la cognizione del tempo. Dobbiamo essere talmente immersi e concentrati su una cosa o un’azione da non accorgerci del normale defluire dei secondi, dei minuti e perfino delle ore. E tutti, credo, abbiamo sperimentato questa distorsione (della percezione) temporale durante momenti di svago ed euforia o nello svolgimento di attività che ci appassionano ardentemente, mi sbaglio? Ecco, può sembrare un controsenso, ma per essere un tutt’uno con il mondo bisogna in principio staccarsi da esso, soggettivarsi all’estremo, fino a svuotarsi, e solo in quello stato sarà possibile tale unione. Essere tutt’uno con il mondo significa scomparire a se stessi, scordare di esistere: è l’assenza dell’Io, o meglio, e la presenza dell’Io più vasto e completo in assoluto.

Annullare la singolarità per accogliere la totalità,

diventare un tutt'uno con la natura

questa è quindi la parola d’ordine per accedere ad istanti di incomparabile serenità.

Il metodo più famoso/tradizionale per farsi da parte è di certo la pratica della meditazione, modello ideale di focalizzazione interiore; ma se meditare non fa per voi, non disperate, ci sono altre vie per raggiungere la natura…

Se escludiamo occupazioni quali: leggere, cantare e recitare, che comportano l’utilizzo della voce (una potente componente dell’essere), ed attività come giocare agli scacchi, risolvere un cruciverba o scrivere un testo, che invece richiedono uno sforzo intellettuale (una presenza) non indifferente; potenzialmente ogni altro hobby o sport, purché motivato da un sincero amore ed accompagnato da un’impegno duraturo (si parla di anni e anni, poiché solamente a quel punto sarà per voi come una seconda natura, naturale come respirare) può condurre alla strepitosa coesione fra singolo ed intero.

Ma che fare se non nutriamo interessi particolari, oppure siamo tipi poco pazienti incapaci di sobbarcarci e rispettare impegni a lungo termine? Niente paura, per fortuna abbiamo ancora una freccia rimasta al nostro arco…  ed è proprio grazie a questa alternativa che in più di un’occasione sono riuscito incredibilmente ad assaporare attimi di indescrivibile pace e contentezza. Non saprei come spiegarlo ma nell’acqua, sia nel suo fluire incessante sotto le spoglie di un fiume sia nel suo incresparsi in cerchi concentrici sotto forma di pioggia in uno specchio (d’acqua)/pozzanghera, si cela un non so che di ipnotico, di avvolgente, di catartico; come se essa sia capace di “lavare” via la coscienza che abbiamo di noi stessi in quanto soggetti pensanti contrapposti a un mondo esterno.

increspatura della pioggia

fiume che fluisce

Provate dunque a contemplare la linfa della vita nelle circostanza citate (meglio dal vivo, e solo come ultima risorsa da video) senza, mi raccomando, forzare la visione, deve essere una cosa spontanea

Che il mondo sia con voi.

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