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Attore di soap

Ho molti difetti, ma non guardo soap opere.

Non so voi, però io ho sempre trovato strano il mestiere dell’attore: essere pagati per impersonare altri, selezionati in quanto migliori nel non essere sé stessi, vivere di finzione. Però! Ma non sarà rischioso? L’atto di saltare continuamente di veste in veste, il fatto di dover simulare le passioni?

Il colmo per un attore? Sentirsi più sé stessi nei panni altrui che in quelli propri; giudicare maggiormente vera la vita recitativa di quella privata, personale.

Ci sarà qualcuno che esclamerà: “Ma non siamo tutti degli attori, in fondo? Ognuno con il suo assortimento di maschere, una a seconda della circostanza o della compagnia? Interpretiamo sempre un ruolo, consapevoli o no…”. Ok, se ciò corrisponde a verità, a maggior ragione, chi recita di professione dovrebbe essere doppiamente suscettibile di manifestare lacerazioni, spaccature.

Eppure, non sentiamo parlare di attori/attrici flagellati da crisi multi-identitarie indirimibili; d’interpreti impossibilitati a prendere le distanze da un personaggio oramai troppo radicalmente assimilato nel proprio Io; non ci pervengono confessioni di persone che non sanno più distinguere la realtà (interiore) dalla finzione (interiore) poiché abituati a sembrare perfettamente spontanei, genuini, dietro la cinepresa/sul palco.

Eppure, non reputiamo la figura dell’attore più prona alla menzogna o meno affidabile della persona media. Che le premesse da cui sono partito non siano altro che degli ipotetici “romanzati”, una poetica scevra di un qualsiasi riscontro fattuale?

Dal canto mio, faccio fatica a credere che non si producano effetti di sorta, soprattutto nei recitanti di telenovelas/soap opere. Qui parliamo di uomini e donne che rivestono i panni di altri uomini e altre donne per anni, in alcuni casi persino per decenni. Sentirsi chiamare con un certo nome; attenersi a un certo stile (espressivo, di condotta, estetico); assumere un certa indole, una certa visione del mondo, una certa morale. Devo forse intendere che in quei uomini e in quelle donne nulla s’insinui, che nulla venga interiorizzato, che nulla finisca per imprimersi stabilmente nel loro essere?

La lettura ti potrà far vivere mille altre vite, ma la recitazione anniderà in te l’essenza di mille altre anime.

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Rivedendo la formula consuetudinaria per una vita sana, oltre all’accoppiata dieta varia – moderato esercizio fisico: porre e porsi domande.

Alimentare costantemente il fuoco della curiosità, indagare e non fermarsi all’immediato, mettere in discussione e non prendere per oro colato il dire altrui e il sentire nostro, essere critici prima di tutto con noi stessi. E nell’atto cruciale di puntare la lente inquisitoria su di noi, una domanda ritengo essere di capitale, di vitale importanza; forse la più importante che possiamo e dobbiamo (per il nostro bene), ciclicamente, con il cuore in mano porci: che sto combinando, della mia vita? Sto conducendo una vita che mi appartiene, o sto vivendo una vita dettata e modellata dalla volizione e dalle ambizioni di altri? La mia vita sta scorrendo cieca per puro moto d’inerzia, o è da me attivamente sospinta verso una meta ideale? Le scelte che ho intrapreso sono in sintonia con il mio essere, o sono, a un livello fondamentale, incompatibili con esso? ovvero: lo stato attuale delle cose è promotore di un ottundimento o rinvigorimento delle mie qualità? sto prosperando, avvizzendo?

Capite bene la MAGNITUDINE di tale analisi introspettiva; non desta affatto meraviglia che in pochi siano i temerari di spirito disposti a sottoporsi al più brutale degli interrogatori: non è proprio un piacevole quarto d’ora – o almeno per i più – quello speso al banco degli imputati, specie se l’udienza si propone di vagliare obiettivamente lo status della nostra esistenza…

Un sentore di pungente amarezza nell’aria, premonizione di sofferenza.  E perciò si fugge dalla domanda, la si getta, zavorrata a dovere, nel fiume dell’oblio, per impedire che essa possa riaffiorare alla superficie della coscienza, al cospetto dei nostri fragili pensieri. Un atteggiamento comprensibile. Al pari della reazione autoconservatrice che spinge la mano ad allontanarsi di scatto da una fonte eccessiva di calore, quando l’integrità psicologica di una persona è messa a repentaglio, la reazione istintuale è quella di sottrarsi dalla fonte che innesca il penoso travaglio interiore. Ma per quanto nell’immediato evitare il confronto ci possa sembrare il corso d’azione più desiderabile, poiché ci consente di mantenere un’apparente serenità, non ci sono ombre sul fatto che ciò è fallimentare, se non tragico, nel lungo periodo: tranquillo oggi, disgraziato domani. Non c’è allora alternativa. Se realmente intendiamo scongiurare l’evenienza di una catastrofe esistenziale, dobbiamo per forza di cose scomodarci, di tanto in tanto, a fare il quadro onesto e veritiero della situazione in cui versano le nostre vite e, se necessario, modificarne prontamente la traiettoria

Coraggio. Radunate tutto il coraggio e la forza di cui siete capaci: il futuro voi stessi ve ne sarà eternamente riconoscente!

Una domanda importante

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Se cessiamo di procedere con la vita, tendiamo a regredire verso modi di adattamento immaturi/infantili, e questa regressione in risposta al conflitto genera vari sintomi di nevrosi (ansia intensa, fobie, comportamenti compulsivi, apatia, pensieri ossessivi e invadenti); ma per quanto sgradevoli questi sintomi possano essere, essi svolgono un’importante funzione: ci allertano del fatto che stiamo discendendo verso un sentiero di vita pericoloso, poiché mentre regrediamo psicologicamente la nostra maturazione fisica non si arresta e un’occhiata allo specchio ci rammenta che non stiamo tenendo il passo con le stagioni della vita, che scorre in una marcia inesorabile. Più rimaniamo in questo stato di conflitto, meno adeguati ci sentiamo e il circolo vizioso prende il sopravvento, ove la ritirata dalla vita conduce alla regressione, e la regressione acuisce la resistenza alla vita. 

Carl Jung – La Teoria della Psicoanalisi

Regressione

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La felicità in pillole

La felicità in pillole

La felicità in pillole

Ah, la feli-ci (letizia o mestizia, quale delle due vi sopraggiunge dallo scandire di queste quattro sillabe?)….

La ricercata numero uno al mondo da qualsiasi bipede implume che abbia un tempo solcato, che stia tuttora solcando e che eventualmente solcherà il pianeta. E tuttavia, per assurdo, nessuno sembra essere in possesso di un esatto identikit di questa fuggiasca più sfuggevole dell’anguilla più viscida.

Ma che cos’è la felicità?

Il dizionario recita: “condizione di letizia, di gioia, di soddisfazione“; vivisezionando ulteriormente, per “condizione” s’intende, nel nostro caso: “stato fisico, morale, psicologico ed economico di una persona“; per cui segue la proposizione: la felicità è il benessere fisico, morale, psicologico ed economico di una persona. Da qui la risaputa difficoltà nel procacciarsi la tanta agognata felicità. Mica un giochetto spuntare tutte le caselle…

Godere di una buona salute fisica e mentale, procedere per la retta via, navigare (almeno) nel bronzo; e poi il non meno arduo compito di mantenere tale tenore.

Be’, dopotutto è stato rapido e indolore ricercare la formula della felicità, giusto un tantino asettico può darsi; ma il titolo non era “La felicità in logicismi“, e perciò veniamo alla pillola della questione…

A parlare di emozioni e sentimenti (non ho mai ben capito la reale distinzione ma vabbè) si fa presto a rivestirle in un etereo alone di magia e mistero. È indubitabile: la sensazione nuda e cruda di un’emozione che di punto e in bianco decide prepotentemente di permeare il tuo essere, è molto potente, magica se volete ma, c’è un ma, si tratta pur sempre di un fenomeno terreno, fin troppo terreno. È sostanzialmente (neuro)chimica.

La felicità è riducibile alla giusta dose di dopamina, serotonina ecc. In linea teorica potremmo elaborare la pillola della felicità.

Una pillola priva di controindicazioni, ingeritela e sarete sempre felici finché vivrete; urtate il mignolo del piede nel solito maledette spigolo, felici; vi svelano il finale di una storia, felici; la vostra squadra del cuore retrocede in serie D, felici; il pesce rosso ci lascia le squame, felici; venite ingiustamente licenziati dal capo, il mutuo non aspetta, vi pignorano la casa, la vostra amata metà vi lascia portandosi via vostro figlio e finite per vivere sotto i ponti, soffrendo di fame e di stenti, felici; purtroppo, venite a sapere che la vostra creatura è stata stroncata da un ‘improvviso e violento male, partecipate al funerale e nel dare l’ultimo saluto non siete afflitti, distrutti dal dolore e dalla tristezza ma imperturbabili, rimanete felici.

Ingerireste la pillola? e in caso affermativo, sarebbe quella la tanto decantata e sospirata felicità?

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Destra o sinistra?

Destra o sinistra?

Destra o sinistra?

Probabilmente suonerà fuori luogo che un apolitico, quale io sono, voglia apprestarsi a esprimere un giudizio “politico”, ma proprio in quanto estraneo e disinteressato alla politica, credo  di trovarmi su di un punto d’osservazione privilegiato, per dare un parere che di politico non ha in verità niente…

È nella natura umana la disposizione a schierarsi e a identificarsi ardentemente con un dato gruppo sociale, sulla comunione di qualità, ideali o fini (è anzi bastevole, come dimostrato da esperimenti sociopsicologici, aggregare le persone casualmente con il lancio di una moneta, in squadre dal nominativo innocuo e generico del tipo “rossi” e “blu”, per infiammare gli animi) e fare fronte comune contro un altro gruppo sociale, spesso e volentieri visto come il “male“, o comunque come una minaccia (ovviamente il sentimento e reciproco).

Tribalismo.

Finché si tratta di calcio può anche andare bene (ma anche no, considerando gli estremi), ma quando abbiamo a che fare con la delicata sfera della politica il discorso cambia, la posta in gioco è alta…

Un ferreo attaccamento ideologico, un veemente zelo per il proprio partito, a discapito di una sincera e, per quanto possibile, oggettiva valutazione delle idee in sé stesse. È logico pendere per un lato della bilancia, non potrebbe essere diversamente. Ma dovremmo davvero impegnarci a fondo per risparmiarci l’instaurazione di una sterile, perlopiù seccante e a tratti ridicola polarizzazione delle parti.

Chiedersi quale sia la dottrina migliore da sposare tra quella di destra e quella di sinistra, è ragionevole quanto chiedersi quale sia la condizione migliore da aversi fra quella di caldo e quella di freddo…  dipende. Scommetto che nel cuore dell’estate, non vi sognereste  mai di avviare i termosifoni, e allo stesso modo non vi ci vedo per niente ad azionare il condizionatore in pieno inverno. Se ciò è vero, allora si può ancora parlare di una questione meramente politica? A seconda della situazione, degli obiettivi, delle risorse ecc., il corso obiettivamente migliore da seguire, appurabile con modelli, previsioni, statistiche socioeconomiche, con l’esperienza del passato (il metodo scientifico, per essere espliciti) sarà di matrice destra o mancina: un principio di semplice buonsenso.

Ma al lume della ragione non è mai stato accordato un peso considerevole negli affari umani, vero?

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