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Nessuno può erigere il ponte sul quale tu, e solo tu, devi attraversare il fiume della vita. Ci potranno essere innumerevoli sentieri e ponti, e semidei i quali sarebbero ben lieti di tenderti la mano e accompagnartici; ma unicamente al prezzo di rinunciare e sacrificare te stesso. C’è un sentiero a questo mondo che nessuno al di fuori di te può solcare. Dove esso conduce? Non invocare, muoviti!

Friedrich Nietzsche

Solo tu

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Possiamo tutto

Possiamo tutto

Possiamo tutto

Non sei portato… Ti manca la stoffa… Non hai il talento.

Mai furono pronunciate parole più devianti nel loro recepimento quanto depredanti nel loro impatto…

La narrazione della vulgata si presenta di una semplicità disarmante, riassumibile nella sentenza: ci nasci o niente da fare, amen. Se siamo o non siamo capaci di qualcosa, ciò è un fatto che esula aprioristicamente e totalmente dal nostro potere.

È tutto scritto nelle stelle (vecchia versione). È tutto codificato nei geni (nuova versione).

Ma com’è partorita questa distorta interpretazione della bravura quale unico risultato del fortuito possesso di un dono naturale? Presumibilmente, nel rapportarsi a individui con ben definite capacità: 1) a cagione dell’inclinazione mentale a presumere lo stato attuale delle cose – quivi le abilità dimostrate – come da sempre vigente. 2) Per via, banalmente, della palese sussistenza e immediata constatazione di un’asimmetria qualitativa rilevante. In tal senso, i popolari talent show – ma che sarebbe consono chiamarli skill show – sono l’estrema rappresentazione di questa dinamica psicologica/cognitiva, in quanto in essi lo spettatore è ripetutamente intrattenuto e strabiliato da una carrellata di esibizioni “talentuose” di vario genere e tipo, le quali possono delle volte lambire il confine (poco documentato) delle umani possibilità.

Ora, è questa una filippica, contro il talento, inveita da una persona livorosa poiché giunto alla penosa e deludente consapevolezza della propria limitante mediocrità? No (seppur non è certamente da escludere che io sia privo di un qualsivoglia discreto talento). Allora voglio forse propugnare che il talento non esiste? No di certo; sarebbe sciocco e alquanto inutile rinnegare l’ovvia esistenza di propensioni individuali verso particolari attività fisiche e mentali. No, io mi scaglio contro quella travisata credenza popolare che con ingiustificato sprezzo presuppone il talento la conditio sine qua non che fatalmente determina l’acquisibilità di una capacità da parte di un soggetto.

Quello che sto per dire potrebbe rivelarsi uno “shock” però udite udite: non è “L’indispensabile è il talento e l’impegno non guasta di certo” ma “L’indispensabile è l’impegno e il talento non guasta di certo (può farti risparmiare tempo ed magari elevarti una spanna sopra gli altri)”. La si è, purtroppo, intesa al rovescio… È davvero così audace ed eccentrico il pensiero secondo cui un qualche cosa di possibile per un essere umano è anche possibile (non per forza nello stesso grado) per un altro essere umano suo simile?

Non mi sembra un volo dell’immaginazione  sostenere che a un maggior investimento (sapiente) di tempo ed energie in una cosa, corrisponda una maggiore dimestichezza, abilità in quella cosa.

Sicché possiamo tutto.

A patto di cimentarsi in un rigoroso impegno programmatico, vale a dire una/o pratica/studio corretta/o (nel metodo), abitudinaria/o (divenendo una “seconda natura”, come direbbero gli anglofoni) e prolungata/o (in mesi o anni), non vi è arte o capacità che non possa infine venire assimilata e per giunta padroneggiata.

Aspettate però a consacrare la vostra vita alla mira di scendere sotto i 9″58 nei 100 m piani – che peraltro rientra in quella casistica di prodezze imprescindibili dal possesso di specifiche dotazioni fisiche – o a quella di formulare una definitiva e unificante teoria del tutto… Il messaggio di fondo non consiste nell’affermare che chiunque può diventare il nuovo Bolt o il nuovo Einstein, ma piuttosto che chiunque in linea di principio può diventare un velocista (anche buono), chiunque può diventare un fisico (anche buono).

Malgrado ciò, ho la netta sensazione che a molti suoni come una tesi sgangherata e più che mai pretenziosa. Purtuttavia, ripeto, non ritengo violi chissà quale legge di natura e tantomeno si tratti di vacue parole, una pia illusione figlia di un pensare positivo naïf e sentimentale. Un serio impegno programmatico può dare tantissimo, è vero, ma, anzitutto esige tantissimo! Niente di meno che una determinazione adamantina e una mostruosa abnegazione del proprio tempo: immaginate la disciplina, la forza di volontà occorrente a dedicarsi, come si suol dire, anima e corpo a un’attività n ore al giorno, anche ogni giorno, per mesi, anni o decenni. Vi pare poca cosa? (L’ho trovate una regime forsennato, da matti? Beh, è così: la via della grandezza è segnata dall’ossessione)

Al pari di cellule staminali totipotenti – che hanno in potenza tutti i tipi di cellula – possiamo specializzarci in tutto, possiamo essere ciò che intendiamo essere.

Riposto nelle nostre mani vi è più di quanto ci è dato di credere.

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Un buon soldato non è un buon essere umano

Un buon soldato non è un buon essere umano

Un buon soldato non è un buon essere umano

Ancora non ho individuato la professione alla quale attribuire la mirabolante qualificazione di “lavoro dei miei sogni“, ma posso senz’altro affermare che quella del soldato è da escludere a priori. Sia ben chiaro, a scanso di equivoci, non ho nulla contro la categoria; il mio disappunto, la mia critica hanno a che fare con il concetto stesso di soldato, che trovo problematico, essenzialmente incompatibile con ciò che (di buono) fa di un essere umano un essere umano.

Dicesi un buon soldato un soldato che esegue gli ordini alla lettera, senza fiatare, senza batter ciglio, quali che essi siano; Dicesi un buon soldato un soldato che pone la buona riuscita della missione assegnatagli sopra ogni altra cosa o considerazione. Abbiamo pertanto un essere umano che da pensante, autonomo, si fa “facente“, subordinato; un essere umano che ammutolisce la propria coscienza e depone la propria volontà per tramutarsi in mero strumento (di violenza e di morte, primariamente).

Lo status ontologico (umanamente compromesso) del soldato è riassumibile nella gravosa parola “dovere“, che qui soppianta, senza riguardo alcuno, le componenti del pensare e del sentire proprie di un essere umano dignitoso.

Il soldato incarna il dovere stesso: è il dovere fatto a persona; più precisamente, il dovere verso la patria.

Un soldato deve combattere(ammazzare)per la patria.
Un soldato deve sacrificarsi(gettare la propria vita)per la patria.
Per la patria(superbia, brama, inettitudine di uno, di pochi).

Un buon soldato non può essere un buon essere umano.

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AI: l’ascesa di un nuovo oracolo

AI: l'ascesa di un nuovo oracolo

AI: l’ascesa di un nuovo oracolo

Dall’alba dei tempi l’essere umano, messo di fronte all’evidenza della sua essenziale impotenza nel comprendere e gestire fino in fondo la caoticità del sistema mondo, ha avvertito il recondito bisogno di affidarsi a qualcosa o a qualcuno, il divino, la natura, di più grande di lui, che lo traesse fuori dall’oscurità epistemologica in cui di volta in volta si trovava inevitabilmente immerso: l’esito di una guerra importante, la durata di una tremenda carestia o, più genericamente e onnicomprensivamente, il fato in serbo. E qualora la rivelazione non fosse stata allineata, favorevole, agli interessi di parte, il passo consequenziale era quello di carpire a ogni costo il sapere atto a ribaltare l’avverso pronostico: in che modo assicurarsi la vittoria? che cosa fare per mettere fine alla penuria? come mutare il corso del destino? Insomma, è in noi intrinseco il desiderio, la smania anzi, di controllo, dominio, potere, che si esplica in un inesausto conato alla conoscenza.

E, come accennavamo, quando il sapere ricercato esulava dalle possibilità conoscitive dell’individuo o della comunità, e che pertanto non poteva venire attinto che per mezzo di un tramite speciale, ci si rivolgeva a figure ambivalenti quali quelle dello stregone, del santone, dello sciamano, del sacerdote, dell’oracolo; tutti soggetti accomunati dal fatto putativo di intrattenere un rapporto privilegiato con forze ed entità extramondane. Detentori di uno sguardo in grado di squarciare la cortina dell’imperscrutabile avvenire, custodi gelosi di conoscenze arcaiche e arcane, unici ponti tra la dimensione mortale dell’uomo e quella eterna della divinità. Essi erano oggetto di venerazione e nei loro confronti si riversava un misto di deferenza, meraviglia e timore, non per nulla si trattava di personaggi altolocati, al pari, se non più influenti delle figure regnanti: schiere e schiere pendevano dalle loro labbra, chi in cerca di risposte, chi di conferme, chi di conforto, chi di salvezza, chi di felicità, chi di speranze, chi di potere, chi di vendetta.

Con il passare dei secoli, dietro la spinta del progresso scientifico-tecnologico, ci siamo allontanati, senza malgrado emanciparcene totalmente ( si pensi alle sacche di superstizione rappresentate dall’astrologia e della cartomanzia), dal magico influsso proveniente dalla prospettiva di ricevere manforte da forze che in un modo o nell’altro trascendono la nostra natura di limitate creature umane. Ma sapete qual è il colmo? Per ironia della sorte, è esattamente dal pieno concretizzarsi del pensiero razionalistico, il quale ha messo in moto un processo di secolarizzazione su larghissima scala, che viene l’impulso generatore che darà avvio a una nuova era di superstizione (collettiva e istituzionalizzata), una che, diversamente dalle tradizionali superstizioni, non si fonderà su presupposti magici e soprannaturali ma su solidissime basi scientifiche, tecniche e informatiche.

Una superstizione/credenza/fede razionale, per quanto paradossale possa suonare…

E il nuovo oracolo, il nuovo Verbo, il nuovo Messia, prende il nome di “intelligenza artificiale” (comunemente riferito con l’acronimo inglese “AI“). Termine un tempo circolante esclusivamente tra gli addetti ai lavori è ora gergo di dominio e utilizzo anche da parte del grande pubblico. Alexa, Siri i casi più eclatanti di intelligenze artificiali entrate a far parte del quotidiano (per non menzionare i vari algoritmi che governano il corretto funzionamento e sostentamento dei colossi del web su cui al giorno d’oggi facciamo così tanto affidamento: Google, Facebook, Amazon, Youtube ecc. anch’essi annoverabili nella vasta e variegata categoria delle AI). Scettici che il vostro cellulare possa assurgere alla veste mitica di oracolo, e dispensarvi preziosi consigli su aspetti salienti della vostra vita? Be’, in effetti non è questa la casistica che ho in mente quando voglio tracciare il paragone tra la tecnologia AI e la figura dell’oracolo (anche se, a onor del vero, la scelta del partner non mi sembra una questione delle più triviali. Dico questo poiché da qualche parte ho letto di una ricerca che ha evidenziato come una discreta percentuale delle coppie formatesi negli ultimi anni abbiano avuto la loro origine in rete). Più che altro, mi riferisco ad AI alle dipendenze di pesi massimi del mercato economico mondiale, di laboratori di ricerca scientifica all’avanguardia, di importanti istituzioni finanziarie e, va da sé, AI di proprietà di governi e stati nazionali.

L’analogia AI-oracolo arriva tuttavia fino a un certo punto. Se è vero che l’oracolo, per una sorta di elezione divina, traeva il suo scibile in seno a una sorgente di natura metafisica, l’intelligenza artificiale riesce a fare quello che riesce a fare – fornirò qualche esempio in un secondo momento – per cause assai terrene e intelligibili, in un processo per nulla estroso o entusiasmante, ma che al contrario definirei banale e tedioso. Come viene alla luce un oracolo moderno? Per semplificare, dando in pasto a un programma una moltitudine esorbitante di dati, modelli, esempi (adeguati si spera) su cui “ruminare” e familiarizzare. Semplice e puro apprendimento via esperienza, in sostanza. Qualcosa che ci riesce bene, uno dei tratti caratteristici della nostra specie: imparare (per operare sempre più efficacemente sull’ambiente, sopravvivere, prosperare). Bravi senz’altro ma, com’è naturale che sia, oltre una data soglia cognitiva non possiamo proprio spingerci: come un dato motore è in grado di sprigionare solo un determinato numero di cavalli vapore, il cervello umano presenta dei limiti strutturali e funzionali e non è fatto per gestire ed elaborare contemporaneamente moli e moli di dati. È esattamente qui, dove noi dobbiamo cedere il passo, che entrano in gioco le macchine e ci fanno mangiare rapidamente la polvere: esse dispongono di una potenza di calcolo migliaia di volte la nostra – da prendere più come iperbole che come fatto assodato, comunque sia deve trattarsi quasi sicuramente di una proporzione non indifferente – (un divario che, neanche a dirlo, non cesserà di ampliarsi), che adibiscono interamente all’ultimazione (non stop) di uno scopo o gerarchia di scopi.

Come anticipato, il risvolto teorico che sta dietro il funzionamento delle cosiddette superintelligenze non posa su chissà quali nebulosi principi, anzi, ma, ciò nonostante, i frutti prodotti dal loro impiego sono certamente impressionanti. In ambito medico, abbiamo intelligenze artificiali capaci di rilevare e quindi diagnosticare (con perizia superiore a qualunque medico umano) in largo anticipo – cosa di notevole importanza – la formazione di cellule tumorali; nei trasporti, ci dirigiamo verso città e metropoli percorse da auto con a bordo solamente passeggeri; ai giochi strategici, da tavolo, quali scacchi e go, ormai non c’è più partita, ci hanno surclassati (se siete del parere che ciò non sia un granché significativo, ripensateci: sono contesti aperti a letteralmente milioni di variabili e possibilità!); accidentalmente, inoltre, contribuiscono all’arricchimento del nostro armamentario di conoscenze scientifiche, facendo nuove scoperte (qualche tempo fa, ho letto di un AI che setacciando, mettendo ordine a vari papers ovvero pubblicazioni accademiche, è riuscita a individuare la fattibilità di un nuovo tipo di materiale), il che è comprensibile: nessuno scienziato potrebbe, per quanto multidisciplinare e stacanovista, essere a conoscenza di tutte le nozioni, teorie (vecchie e nuove), dei dibattiti, delle ricerche (e relativi risultati) in corso nel mondo, nel proprio campo, figuriamoci in quello degli altri, e comunque sia, nessuna mente umana potrebbe mai e poi mai contemplare tale immensità (sempre crescente) di input disponibili…

Gradualmente, la componente AI permeerà ogni filamento del tessuto societario, umano, e da utile strumento potrebbe finire a elevarsi a imprescindibile presupposto al funzionamento e progredimento della civiltà umana in tutte le sue manifestazioni. Come nei confronti degli antichi oracoli, in questo ipotetico scenario, porremo una fiducia incondizionata all’autorità decisionale delle future intelligenze artificiali, delegheremo al loro giudizio ogni scelta di peso, sia a livello micro, individuale (il percorso di studi, la carriera lavorativa ecc.) sia a livello macro, collettivo (provvedimenti, regolamenti, leggi da adottare).

Siamo a cavallo di un epocale cambio di paradigma sociale, uno votato a un più che mai forte determinismo. Sono dell’idea che l’intelligenza artificiale abbia tutte le carte in regola per rivelarsi il propulsore di un benessere che di gran lunga valica ogni più nostra fervida immaginazione e aspettativa, e, verosimilmente, costituirà il nostro asso nella manica, la nostra ultima spiaggia nella risoluzione di problemi che semplicemente vanno al di là delle nostre possibilità. Ma ciò non toglie il fatto che tale tecnologia porterà con sé radicali cambiamenti, che, nel bene o nel male, stravolgeranno irrimediabilmente il nostro modo di vivere. E noi abbiamo il dovere morale di non distogliere lo sguardo, di stare all’erta: per far sì che ciò cui acquisiamo non comporti in cambio la perdita di qualcosa in verità molto più importante… d’altronde, è risaputo: oracoli et similia non di rado erano soliti esigere dei sacrifici (umani), anche in numero elevato…

Non scordiamo mai, infine, che il responso delle AI non è intrinsecamente infallibile ma può essere suscettibile a errori (sistematici). L’esecuzione di compiti e operazioni potrà pure essere perfetta, tuttavia, se le premesse sulle quali queste ultime poggiano sono anche solo parzialmente viziate, vuoi da pregiudizi, vuoi da fallacie logiche, ecc., ciò inficerà fatalmente sulla validità e sostenibilità dei risultati ottenuti.

E le premesse siamo noi.

Le AI amplificheranno esponenzialmente ciò che siamo: e se è vero che si raccoglie ciò che si semina, ebbene, ci conviene davvero, fin da subito, dare il buon esempio, letteralmente…

AI Oracolo

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Il sacrificio di sé

il sacrificio di sé

Il sacrificio di sé

Per alcuni un atto ridevole, incomprensibile, un gesto di estrema stupidità mentale: “Perché mai agire a proprio discapito“? Per altri invece, si tratta di un atto lodevole, condivisibile, un gesto di estrema nobiltà morale/spirituale: ” È la cosa giusta da fare“. Comunque stiano le cose, non posso fare a meno di ricordare una persona eccezionalmente stupida o nobile…

Faraaz Hossain, un nome che a molti non dirà niente o quasi, ma che personalmente mi è  rimasto impresso. Un ragazzo che ha preferito la morte alla salvezza, che ha barattato un futuro brillante con un una fine dolorosa e prematura, piuttosto che abbandonare le sue amiche al loro destino (e quanti “amici” avrebbero fatto lo stesso?)…

Si dice: “Un amico si riconosce nel momento del bisogno“, in questo caso il detto si è seguito anche fin troppo alla lettera; dopotutto il suo sacrificio è stato inutile, le sue amiche sono morte ugualmente. Sarebbe dovuto scappare da quel mattatoio (strage di Dacca), nessuno lo avrebbe biasimato, e un giorno avrebbe superato quel tragico avvenimento, del resto era giovane, aveva ancora tutta una vita davanti a sé. Dico, sarebbe stata la cosa più logica da fare: sopravvivere. Invece no, il comando che dovrebbe essere la priorità, l’imperativo assoluto di ogni essere vivente, vivere, è stato scavalcato, ma da che cosa? La madre ha dichiarato che il figlio non avrebbe mai potuto perdonarsi, se fosse scampato sano e salvo da quell’orrore, sapendo di aver però lasciato indietro due persone a lui care. Per lui la morte è stata preferibile ad un’esistenza afflitta dal rimorso; sì: l’amicizia, l’altruismo e l’amore, tutto ciò lo ha spinto all’estremo gesto del sacrificio di sé e per.

Proprio così, il sacrificio per altri, alla fine della fiera, altro non è che il sacrificio per se stessi, una forma  d’amore di sé, che pur di evitare un tormento reputato ingestibile, opta per l’autodanneggiamento o perfino l’autodistruzione.

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