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Una vita senza problemi

Qualcuno disse: “La vita è un problema dopo l’altro” – certamente non una delle immagini più incoraggianti – ; e, in effetti, l’esperienza sembra suffragare in pieno questa allegra descrizione. Piccoli o grandi che siano, partendo dal banalissimo quanto frustrante problema di una scarpa che si slaccia in continuazione, per arrivare a questioni decisamente di maggiore peso e portata quali possono essere il tracollo di una lunga relazione amorosa o il pesante deteriorarsi delle proprie condizioni di salute, i problemi, al pari della pasta nostrana, assumono ogni sorta di forma e dimensione immaginabile. Ci basti accendere la tv – un esempio forse già alquanto anacronistico? – e ascoltare la raffica di buone notizie del giorno, oppure ci basti pensare alle frequenti “sedute” con amici e conoscenti dove, volenti o nolenti, ci vengono raccontate/inscenate, con dovizia di particolari, le varie vicissitudini di ciascuno, ma che dico, ci basti (e avanzi) la nostra testimonianza personale. Ovunque posiamo lo sguardo problemi a vista d’occhio: risolvine uno, ne fuoriescono altri tremila, quasi fosse una legge fisica. Ma difatti, fisicamente parlando, si potrebbe accostare l’inevitabile proliferazione a medusa dei problemi all’altrettanto inevitabile accrescimento del livello di disordine ovvero entropia, in qualsiasi sistema, a cui fa riferimento la famosa seconda legge della termodinamica.

Cosicché abbiamo la sicurezza di una vita all’insegna della difficoltà… deprimente? Può anche darsi, ma che dire di quella fantasiosa visione, che di tanto in tanto ci piace intrattenere languidamente per quei due secondi quando ci ritroviamo ad affrontare l’ennesima grana imprevista, di una vita spoglia da inconvenienti, placida, spianata, insomma, senza problemi di sorta? Che dire? È per caso dolce e desiderabile quanto irriflessivamente ci appare? Qualcuno potrebbe ribattere che sì un mondo senza l’attuale problema del Covid-19 sarebbe alquanto desiderabile… e sarei naturalmente in accordo. Da figurarsi se mi trovassi contrario all’ideale di una vita risparmiata da problemi causanti indicibili tormenti e sofferenze. E chi lo sarebbe? No, il mio scetticismo è indirizzato verso un vivere privo di attriti, di resistenze, dove facile facile procedi da A a B, dall’oggi al domani, nessun intoppo, niente imprevisti. E sbaglio o la qual cosa, Signore e Signori, ha tutta l’aria, il fetore di una vita stagnante, esangue, poiché priva di stimoli, di sfide, di problemi? Personalmente non oso neanche immaginare, senza avvertire uno spasimo di orrore/disgusto nelle budella, di condurre un’esistenza del genere: una vita destituita della possibilità di affermare sé stessa, la sua potenza.

Sarò masochista dentro, ma sono del modesto (e poco originale) avviso che una vita che voglia dirsi Vita sia imprescindibile dall’includere entro le sue rigogliose fibre dei filamenti di disagio, di inadeguatezza, e persino di dolore…

Poi può darsi pure il caso che ciò non sia altro che un discorso semi-campato in aria frutto di una semplice e necessaria razionalizzazione a posteriori per sentirci meglio; dal momento che il patimento è una costante del vivere, ci siamo raccontati (e bevuti) delle belle storielle consolatorie su quanto il dolore e le difficoltà, in definitiva, ci aiutino a crescere… Comunque sia, una cosa mi sento di dire con assoluta certezza: una vita senza uno straccio di avversità o problemi sarebbe noiosa ogni oltre limite!

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Rivedendo la formula consuetudinaria per una vita sana, oltre all’accoppiata dieta varia – moderato esercizio fisico: porre e porsi domande.

Alimentare costantemente il fuoco della curiosità, indagare e non fermarsi all’immediato, mettere in discussione e non prendere per oro colato il dire altrui e il sentire nostro, essere critici prima di tutto con noi stessi. E nell’atto cruciale di puntare la lente inquisitoria su di noi, una domanda ritengo essere di capitale, di vitale importanza; forse la più importante che possiamo e dobbiamo (per il nostro bene), ciclicamente, con il cuore in mano porci: che sto combinando, della mia vita? Sto conducendo una vita che mi appartiene, o sto vivendo una vita dettata e modellata dalla volizione e dalle ambizioni di altri? La mia vita sta scorrendo cieca per puro moto d’inerzia, o è da me attivamente sospinta verso una meta ideale? Le scelte che ho intrapreso sono in sintonia con il mio essere, o sono, a un livello fondamentale, incompatibili con esso? ovvero: lo stato attuale delle cose è promotore di un ottundimento o rinvigorimento delle mie qualità? sto prosperando, avvizzendo?

Capite bene la MAGNITUDINE di tale analisi introspettiva; non desta affatto meraviglia che in pochi siano i temerari di spirito disposti a sottoporsi al più brutale degli interrogatori: non è proprio un piacevole quarto d’ora – o almeno per i più – quello speso al banco degli imputati, specie se l’udienza si propone di vagliare obiettivamente lo status della nostra esistenza…

Un sentore di pungente amarezza nell’aria, premonizione di sofferenza.  E perciò si fugge dalla domanda, la si getta, zavorrata a dovere, nel fiume dell’oblio, per impedire che essa possa riaffiorare alla superficie della coscienza, al cospetto dei nostri fragili pensieri. Un atteggiamento comprensibile. Al pari della reazione autoconservatrice che spinge la mano ad allontanarsi di scatto da una fonte eccessiva di calore, quando l’integrità psicologica di una persona è messa a repentaglio, la reazione istintuale è quella di sottrarsi dalla fonte che innesca il penoso travaglio interiore. Ma per quanto nell’immediato evitare il confronto ci possa sembrare il corso d’azione più desiderabile, poiché ci consente di mantenere un’apparente serenità, non ci sono ombre sul fatto che ciò è fallimentare, se non tragico, nel lungo periodo: tranquillo oggi, disgraziato domani. Non c’è allora alternativa. Se realmente intendiamo scongiurare l’evenienza di una catastrofe esistenziale, dobbiamo per forza di cose scomodarci, di tanto in tanto, a fare il quadro onesto e veritiero della situazione in cui versano le nostre vite e, se necessario, modificarne prontamente la traiettoria

Coraggio. Radunate tutto il coraggio e la forza di cui siete capaci: il futuro voi stessi ve ne sarà eternamente riconoscente!

Una domanda importante

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Perché Batman non uccide Joker?

Perché Batman non uccide Joker?

Perché Batman non uccide Joker?

Una domanda più che legittima. Perché l’uomo pipistrello, il protettore di Gotham, non si risolve a togliere definitivamente dalla circolazione la sua nemesi,  nonché il più sadico e sanguinoso criminale della città, il disumano pagliaccio?

Il detective migliore del mondo dovrebbe essere già da tempo giunto all’ovvia conclusione che la cosa più logica da fare sarebbe quella di spezzargli il collo: nessuna struttura detentiva può sperare di contenerlo a lungo, evaderà ogni volta; a differenza degli altri criminali, non è dietro ai soldi e alle ricchezze, ma ha disperato bisogno di divertirsi, di farsi quattro risate, sulla pelle della gente, inscenando i suoi “esilaranti” spettacoli/giochi, che, senza eccezioni, si lasciano appresso una scia inconfondibile di morte, sofferenza e paura; inutile accennarlo ma: difficilmente avrà mai un cambio di coscienza.

Ciò che lo frena è il suo inamovibile codice etico: si è imposto, nella sua crociata contro il crimine, di non uccidere in nessunissima circostanza,  per nessunissima ragione, mai. Ammirevole. Ma nell’osservare fino in fondo questa legge morale in lui, Batman fa la cosa giusta? Egli sa benissimo che ,ogni qualvolta risparmia la vita del clown,  sta praticamente condannando quella di innumerevoli persone (può fare del suo meglio, ma non può salvare tutti; nemmeno Superman, dotato com’è di superpoteri, può farlo)… Deve essere un gravoso peso per la coscienza.

Allora perché? In fin dei conti si tratta di una vita, quella dell’infame Joker, al posto di quella di molti, si presume, innocenti – uno scambio più che equo – …

Il Cavaliere Oscuro – per quanto ne so – ha addotto due ragioni a favore del suo reciso diniego.

Nessuna differenza

Imporporarsi le mani significherebbe sprofondare al medesimo abisso di bestialità e meschinità: non sarebbe migliore di lui, ma come lui un assassino.

Punto di non ritorno

Batman è un eccelso combattente, tra i più forti artisti marziali del pianeta. In altri termini, conosce mille e più modi per colpire, incapacitare e distruggere il corpo umano (che abbonda di punti deboli, vitali).

Lasciarsi andare, e perciò uccidere, gli risparmierebbe un sacco di tempo, energie e inconvenevoli ; trattenersi e arrecare il minimo danno, è assai impegnativo (specie se il nemico è altamente capace e non è vincolato dagli stessi riguardi). Tuttavia, quella linea non deve essere sorpassata. Se si vuole conservare la propria integrità, la propria umanità, quella linea non deve essere sorpassata: chi uccide (volontariamente) una volta, sarà meno inibito e quindi più propenso a uccidere nuovamente, presentandosi l’occasione – l’asticella dell’ammissibilità si abbassa progressivamente e in fretta – . E per il nostro vigilante mascherato, esposto giornalmente, e quasi senza tregua,  a violenza e crudeltà di ogni genere, il passo discendente verso una spirale infinita di cruenti massacri è breve…

Dunque: è Batman nel giusto, nella scelta di non uccidere Joker? È da biasimare o è da lodare? È da rispettare o è da ripudiare?

A voi la sentenza…

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Vorrei sapere se è peggio essere violentata cento volte da pirati negri, rimetterci una natica, passare per le verghe bulgare, essere frustato e impiccato in un auto-da-fé, essere sezionato, remare in galera, insomma provar le miserie che tutti noi abbiam passato, oppure star qui senza far niente?

Voltaire – Candido

Una grande questione

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