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Ridono di me perché sono diverso; rido di loro perché sono tutti uguali.

Kurt Cobain

AHAHAH!!!

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Tutti vivono in una fantasia della quale sono il protagonista

Keiichi Sigsawa – Kino no Tabi

Soggettivismo ultimo

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Mi sono fatto attendere, ma alla fine una risposta l’ho trovata. Tempo fa, ormai più di un anno fa, scrissi un articolo nel quale proclamavo, con fare faceto, la mia intenzione di venir meno a ciò che tranquillamente possiamo definire la vocazione biologica ultima, quella che interessa e accomuna tutte le forme di vita: assicurare il proseguimento della propria specie veicolandone il patrimonio genetico; moltiplicarsi, procreare insomma. In quell’istanza, però, la mia rimase un’asserzione sorretta da nient’altro che un’intuizione uterina. Ma, come qualvolta inspiegabilmente e ironicamente accade, quando uno si affanna a più non posso nel trovare la soluzione a un problema e non ci riesce, si distacca completamente dalla ricerca e nel mentre di tutt’altra la soluzione al precedente problema si fa come avanti di sua spontanea volontà, qualche giorno addietro, quando oramai nei miei pensieri della questione “no figli” non vi era assolutamente la benché minima traccia (o almeno è questo ciò che mi è consentito di affermare), ecco che un perché si è rivelato, folgorante, inatteso. Sensato? non saprei.

Noi esseri umani siamo davvero strani. Un costante e adeguato nutrimento, un riparo atto a proteggere dai predatori e a schermare dalle intemperie, la disponibilità di uno o più partner sessuali, l’appartenenza a un gruppo, tutto ciò è quanto basta per soddisfare l’esistenza delle altre specie, ma non quella dell’uomo (di norma). Noi necessitiamo, esigiamo il soddisfacimento, la realizzazione di un bisogno “superiore”: trovare, meglio ancora, conferire un qualche significato, un qualche valore, un qualche scopo al transitorio esserci che è la vita di ciascuno; pena l’essere avvinghiati perennemente da un sentimento di vuotezza e futilità: l’essere un guscio che cammina…

“Diventa te stesso!”, tuonava Nietzsche. Un’impresa nel più vero senso della parola. E a me pare che molti si sottraggano dalla gravosa chiamata ricorrendo ad una precisa scappatoia, ovvero quella di incuneare saldamente la propria vita al ruolo sacro di genitore. Mi correggo, piuttosto che di una fuga, sarebbe più giusto dire che si tratta di scegliere la maniera più “facile”, di default, per soddisfare quel nostro bisogno metafisico di senso e finalità, poiché totalmente in linea con ciò che la natura da noi richiede: figliare.

Diventare padre/madre ti cambia radicalmente la vita, si dice, e a buona ragione.

È inevitabile. Il nascituro è destinato, con la sua venuta, a detronizzare l’Io del genitore dal suo centro focale, assestando un nuovo gioco di equilibri chiaramente a sfavore, a discapito della soggettività del secondo. In altre parole: essere genitori vuol dire vivere per i figli; mettere la loro esistenza in capo alla propria. E in ciò nulla di male, ci mancherebbe… ogni manifestazione di amore è certamente la bene accetta, vitale, in un mondo, quello umano, che altrimenti sarebbe un luogo incredibilmente arido e squallido.

Avete ora inteso il perché dietro alla mia importante decisione di non volere dei figli?

Desidero che il motivo conduttore della mia vita (attualmente dai contorni sfumati) sia localizzato internamente, in me, a partire da me.

Puro esempio di egoismo? Non credo. Ma se essere egoisti significa voler vivere per stessi anziché per gli altri (il che non equivale a dire di preoccuparsi e occuparsi sempre ed esclusivamente di sé), allora sono felice di esserlo!

 

 

Il perché non voglio figli

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Un giorno capirai…

Un giorno capirai...

Un giorno capirai…

L’uscita prediletta di mentori, vecchi e genitori, che viene utilizzata nei confronti di pupilli, giovani e figli o trepidanti, di ricevere un responso a un interrogativo che li stuzzica, o perplessi, sul significato da assegnare a ciò che è stato loro comunicato.

Perché non ora? che cosa mi manca?

È in noi naturale la convinzione di essere belli che fatti. Pensiamo, puntualmente ed erroneamente, di essere già “arrivati”, sentiamo di stare impersonando la versione migliore di noi stessi, ma è un’illusione: siamo in perenne metamorfosi.

Quel “un giorno capirai”, che di primo acchito può dimostrarsi fortemente antipatico e che ha in tutto e per tutto la parvenza di una ridicola scusa tirata in ballo per scaricare l’interlocutore e togliersi d’impiccio, sottintende una grande verità: ci sono cose che non si possono descrivere, trasmettere con le sole parole.

Fortuna vuole che non una frattura abbia mai interessato alcuna delle 206 ossa che compongono il mio scheletro. Non so cosa vuol dire o meglio, non so cosa di prova – posso farmene un’idea, ma quanto può valere? – quando un trauma di una certa intensità porta un osso a incrinarsi o spaccarsi con il sonoro (?) crac d’accompagnamento. Non importa quanto dettagliati, espressivi e chiari possiate essere; è impossibile che io possa effettivamente concepire cosa significhi subire una frattura (il tipo di dolore, il fastidio del conseguente impedimento ecc.).

L’affare si complica esponenzialmente una volta che prendiamo in esame questioni più “astratte”, come l’amore, si può apprendere il senso di amare ed essere amati, fermandosi a un’esposizione orale? che dire poi di casi legati all’identità di figure cariche di quid come padre, madre? quale definizione sarebbe bastevole a farmi comprendere a pieno ciò che deriva dall’essere un padre, una madre?

Per quanto il linguaggio sia uno strumento formidabile, esso viene meno davanti allo scoglio insuperabile dell’esperienza soggettiva, dell’incomunicabile; di più, il fatto è che «l’arrembaggio» intellettuale, freddo, distaccato, razionale, di per sé solo, è insoddisfacente. Per capire realmente qualcosa o qualcuno, o perlomeno per avere una possibilità, è imprescindibile l’ingrediente pratico, sanguigno, intimo, irrazionale dell’assorbire pienamente e direttamente, senza filtri, senza ammortizzatori, su di sé l’impatto di quel qualcosa, di essere quel qualcuno…

In definitiva, sì. (forse) Un giorno capirai ma non ora.

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